Operazione “Monte Reale”, scongiurata una sanguinosa guerra di mafia

In ballo c’era l’egemonia all’interno della famiglia di Monreale

MONREALE, 4 ottobre – Gli inquirenti ritengono di avere scongiurato una sanguinosa guerra di mafia, nella quale, per accaparrarsi l’egemonia della “famiglia” di Monreale, si sarebbe fatto ricorso alle armi. E’ questo uno degli aspetti dell’operazione “Monte Reale”, messa a segno stanotte dai carabinieri di Monreale.

Sedici le ordinanze di custodia cautelare firmate dal Gip di Palermo Guglielmo Ferdinando Nicastro, su richiesta della Procura distrettuale diretta da Francesco Lo Voi, nell’ambito di un’indagine coordinata dal Procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dai sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise e Siro Deflammineis.

I coinvolti nell’operazione odierna sono ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, nonché lesioni gravi, estorsione, illecita detenzione di armi, detenzione di sostanze stupefacenti, tutti delitti aggravati per essere stati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività dell’associazione mafiosa.

L’operazione può essere considerata il “sequel” delle indagini condotte dal Nucleo Investigativo di Monreale relative al mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, grazie alle quali lo scorso 16 marzo, a conclusione dell’operazione convenzionalmente denominata “Quattro.Zero” erano stati tratti in arresto numerosi esponenti apicali del sodalizio.

In ballo, in questo caso c’è la riorganizzazione della famiglia di Monreale, nella quale stava per divampare una vera e propria guerra per l‘egemonia, in un momento in cui il mandamento di San Giuseppe Jato, nel quale è ricompresa la famiglia monrealese, attraversa un momento di passaggio al vertice, a causa delle precarie condizioni di salute di Gregorio Agrigento, coadiuvato, tra gli altri, da Ignazio Bruno e Antonino Alamia, il cassiere del mandamento.

Proprio in questo ambito, pertanto, si inquadra la “guerra” monrealese a capo della cui famiglia era stato designato Giovan Battista Ciulla, attivamente coadiuvato da Onofrio Buzzetta, Nicola Rinicella e Giuseppe Giorlando.

 A Monreale, dopo l’operazione “Nuovo Mandamento” conclusa nell’aprile 2013, si era venuto a determinare un vuoto nel panorama mafioso, a causa dell’arresto del capo famiglia Vincenzo Madonia e di numerosi altri associati. Tale spazio di manovra veniva colmato con la decisione del nuovo vertice del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, nel frattempo ricostituitosi, di individuare il reggente della famiglia di Monreale in Giovan Battista Ciulla (poi arrestato il 16 marzo nel corso dell’operazione “Quattro.Zero”).

Ciulla, però, assieme a Buzzetta avrebbe tentato di modificare gli equilibri, determinando in questo modo delle fibrillazioni interne. Fibrillazioni divenute più forti a seguito della scarcerazione di Benedetto Isidoro Buongusto, avvenuta il 5 novembre 2014, dopo aver espiato la condanna ad anni 8 di reclusione per associazione di tipo mafioso.

Ciulla, in pratica, assieme a Buzzetta ed, appunto, a Benedetto Buongusto, avrebbe perseguito nuove strategie, organizzando una nuova “piccola cupola” locale.

Una decisione, però, invisa agli altri componenti della famiglia, che a Ciulla imputavano alcune cose, per nulla gradite. Fra queste la gestione dei proventi di attività illecite perpetrate nel territorio di competenza (Ciulla avrebbe trattenuto per sé, ad esempio i proventi delle macchinette dei videopoker per circa 500 euro al mese, non consegnando le somme al cassiere Alamia). Lo stesso Ciulla non si sarebbe presentato ad appuntamenti fissati per discutere della sua gestione della famiglia mafiosa e – cosa grave per le regole di Cosa Nostra – avrebbe intrattenuto una   relazione extraconiugale con la moglie di un soggetto, all’epoca dei fatti detenuto, in violazione del codice d’onore che disciplina in maniera ferrea la vita di Cosa Nostra.

Motivi, tutti questi, che avevano già fatto decretare agli altri componenti della famiglia di Monreale la sua eliminazione, tanto che Ciulla, capita l’antifona, si era dato alla fuga, allontanandosi dalla Sicilia l’8 febbraio 2015 e trovando rifugio in un lontano comune della provincia di Udine, per poi tornare a Monreale, con la consapevolezza, però, di essere ormai fuori dal giro.

Spodestato Culla, quindi, occorreva individuare un nuovo capo famiglia, ruolo che veniva preso da Francesco Balsano, un uomo con un “pedigree” di tutto rispetto, per essere il nipote di Giusppe Balsano, morto suicida nel carcere di Novara.

Il ruolo a Balsano era stato da dalla famiglia Lupo (Domenico e Salvatore, padre e figlio) e l’investitura era avvenuta nell’ambito di una riunione di mafia, tenutasi nel pomeriggio del 25 febbraio 2015, presso un capannone delle campagne di Monreale, di proprietà di Domenico Lupo alla quale partecipavano, quali esponenti del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, Girolamo Spina (nipote ed autista di Gregorio Agrigento), Vincenzo Simonetti e Ignazio Bruno, mentre per la famiglia mafiosa di Monreale, Salvatore Lupo e Francesco Balsano. Nel corso dell’incontro, oltre alla citata nomina, si stabiliva che il principale interlocutore di Balsano in seno al mandamento sarebbe dovuto essere Antonino Alamia e, soprattutto, veniva  sancito di esautorare e punire i componenti del gruppo legato a Giovan Battista Ciulla.

Ne scaturiva quindi una serie di episodi di intimidazione, aggressioni e minacce, il più eclatante dei quali risultava essere sicuramente, il 28 febbraio 2015, il grave atto intimidatorio ai danni di Buongusto, il quale, recandosi in caserma a Monreale, denunciava di aver rinvenuto, innanzi l’uscio della propria abitazione, una testa di capretto su cui era stata conficcata una pallottola da caccia, con annesso un biglietto recante testualmente la scritta: “DA QUESTO MOMENTO NON USCIRE PIU’ DI DENTRO PERCHE’ NON SEI AUTORIZZATO A NIENTE”.

A tale messaggio dal chiaro contenuto mafioso, Salvatore Luo e Francesco Balsano, con l’aiuto di Sergio Denaro Di Liberto (il picchiatore “prestato” dai vertici di San Giuseppe Jato) facevano seguire, la sera del 3 marzo 2015, una missione punitiva ai danni di Benedetto Isidoro Buongusto, il quale veniva rintracciato per le vie di Monreale e pestato violentemente con tubi in ferro, tanto da fargli riportare diversi traumi e la frattura di una costola e venendo sottoposto d’urgenza ad intervento chirurgico per toracotomia.

A pagare il conto, però era anche Onofrio Buzzetta, braccio destro di Ciulla che il 6 marzo 2015 veniva minacciato nella propria autovettura da Francesco Balsano, il quale gli puntava una pistola in bocca, pronunciando le seguenti parole “SONO AUTORIZZATO AD AMMAZZARTI PURE ORA”.

Buzzetta, allora, seriamente intimidito dalle minacce subite e temendo per la propria vita, chiedeva, per il tramite di un amico, un incontro con Rosario Lo Bue, capo mandamento di Corleone, unica persona in grado di intervenire in maniera determinante ed autorevole nei confronti dei vertici del mandamento di San Giuseppe Jato. Per questo motivo il 7 marzo 2015 si recava a Corleone, riuscendo ad ottenere la protezione.

Analoghe minacce erano state indirizzate anche a Nicola Rinicella da Balsano, il quale in un duro confronto precisava all’interlocutore “TI E’ FINITA BENE PERCHE’ DALL’ALTRA PARTE MI AVEVANO DETTO DI SPACCARTI LE GAMBE”.

Nel frattempo, l’intervento dei Carabinieri di Monreale faceva venir meno la reggenza della famiglia mafiosa di Monreale da parte di Francesco Balsano, incarico di fatto ricoperto per 10 giorni, dal 25 febbraio 2015 al 6 marzo 2015, procedendo al suo arresto per detenzione illegale di una pistola automatica cal. 7,65 e relativo munizionamento, rinvenuta nel corso della perquisizione presso la sua abitazione.

Nel periodo successivo a queste minacce ed azioni violente, si registrava un’apparente posizione defilata del gruppo legato a Ciulla, a vantaggio della fazione emergente, che aveva ormai assunto il controllo della famiglia mafiosa, sotto la reggenza di Salvatore, Lupo, appoggiato dai vertici del mandamento di San Giuseppe Jato.

Buongusto, però, non aveva perso tutte le speranze, tant’è che all’inizio del 2016, venivano intercettate alcune conversazioni nel corso delle quali lo stesso Lupo ed il capo decina Giovanni Pupella (incaricato della gestione dello spaccio nella piazza di Monreale) facevano riferimento ad una riorganizzazione del gruppo mafioso capeggiato da Buongusto, che aveva l’obiettivo finale di spodestare a qualsiasi costo i Lupo e di riprendere il controllo della famiglia.

Pupella, preoccupato da tale eventualità, consigliava a Salvatore Lupo di agire per tempo e soprattutto di intervenire mettendo in atto, all’occorrenza, anche atti violenti “TOTO' LORO DEVONO  BUSCARLE, TOTÒ, E BASTA, TOTÒ, A LORO NON DOBBIAMO… NON DOBBIAMO FARE CAPIRE NULLA, O FRATE, NOIALTRI… LORO DEVONO BUSCARLE… LORO DEVONO RIMANERE A PIEDI…”. Nella circostanza, Lupo ribatteva che avrebbe immediatamente richiesto al vertice del mandamento di San Giuseppe Jato l’autorizzazione ad agire contro i rappresentanti del gruppo capeggiato da Buongusto, nel rispetto delle ferree regole gerarchiche di Cosa nostra.

Le parole di Salvatore Lupo non lasciavano dubbi sul fatto che un’eventuale azione da parte del gruppo retto da Buongusto, peraltro in cerca di vendetta per il violento pestaggio subito, potesse scatenare una vera e propria violenta faida tra le due fazioni antagoniste, tenuto conto della disponibilità del gruppo retto da Lupo di armi da fuoco, come accertato nel corso dell’indagine.

Proprio con riferimento alla disponibilità di armi da fuoco da parte della famiglia mafiosa di Monreale, è importante sottolineare quanto già delineato in precedenza sulle acquisizioni investigative che hanno portato all’arresto di Francesco Balsano, avvenuto il 6 marzo 2015 per detenzione abusiva di una pistola clandestina del relativo munizionamento.

In merito ai canali di approvvigionamento di armi, è utile richiamare anche l’arresto di Umberto La Barbera, ritenuto vicino alla famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, al quale, il 28 dicembre 2015, nel corso di una perquisizione domiciliare, veniva rinvenuta sostanza stupefacente e 47 cartucce calibro 22 corto. Lo stesso, poco meno di un mese dopo l’arresto, esattamente il 26 gennaio 2016, veniva denunciato in stato di libertà dal Comando Stazione Carabinieri di San Giuseppe Jato, a seguito del rinvenimento in un appartamento nella sua disponibilità, di un fucile calibro 12 con matricola alterata e diverse munizioni del medesimo calibro.

La disponibilità da parte del sodalizio mafioso di armi da fuoco ha ricevuto ulteriore conferma il 21 marzo 2016, allorquando nel corso di una perquisizione venivano rinvenute e sottoposte a sequestro una pistola calibro 9 con matricola abrasa e canna modificata e 122 cartucce di vario calibro, riconducibili a Domenico Lo Biondo tratto in arresto nell’ambito dell’operazione del 16 marzo scorso “Quattro.Zero”.

Infine, non di minor rilievo è l’arresto in flagranza di reato eseguito dai Carabinieri di Monreale  il 29 marzo 2016 a carico di Pietro Lo Presti, appartenente alla famiglia mafiosa di Monreale, a seguito del rinvenimento di una pistola marca “Valtro”, con matricola abrasa, modificata per  permettere l’utilizzo di munizioni calibro 7,65 browning, nonché di 53 cartucce del medesimo tipo.

Gli articolati approfondimenti investigativi condotti hanno consentito, inoltre, di evidenziare una serie di reati fine del programma criminoso della compagine mafiosa, tra cui particolare importanza rivestono certamente le quattro vicende estorsive ai danni di imprenditori del settore edile e di commercianti, ricostruite in modo compiuto nel corso dell’indagine.

Altrettanto rilevanti sono le attività investigative che hanno consentito di comprovare il reimpiego di parte dei proventi delle attività illecite nello spaccio di sostanze stupefacenti e nella realizzazione di una vasta piantagione di marijuana nelle campagne di Piana degli Albanesi. In tale quadro si innesta l’arresto di Michele Mondino e Gaetano Di Gregorio, eseguito dai Carabinieri di Monreale il 3 agosto 2015, con il contestuale recupero di 900 piante di cannabis sativa. Le successive analisi hanno evidenziato che dalle piante sequestrate sarebbe stato possibile ottenere circa 150 kg netti di sostanza, per un totale di oltre 55.000 dosi singole, che - immesse nel mercato – avrebbero potuto garantire un guadagno di quasi un milione di euro.