Un caffè col maestro Pietro Scalisi, puparo

È stato uno dei protagonisti della recente “Notte Bianca Unesco”

PALERMO, 21 ottobre – In occasione della Notte Bianca Unesco a Monreale, il 28 settembre, in quel di Largo Cutò, tornava sul palcoscenico dopo tanti anni il maestro puparo Pietro Scalisi, ospite d’eccezione della serata, durante lo spettacolo dell’Opera dei Pupi a cura della compagnia Brigliadoro di Palermo. A poco più di due settimane dall’evento, abbiamo deciso di approfondire, davanti ad una tazza di caffè, l’opera del maestro palermitano, attraverso una chiacchierata dai toni informali.

“Accomodatevi – esordisce il maestro, lieto di accoglierci – sedetevi, faccio preparare subito un caffè”. Non appena entrati, è stato possibile percepire nell’area, il profumo dell’artigianato di una volta. In effetti, Pietro Scalisi, ha adibito un piccolo angolo della sua abitazione a laboratorio, continuando la sua attività, con grande passione.
La presenza di alcuni paladini appesi, all’interno della stanza, suggerivano ancor prima che il maestro raccontasse, una certa storia. Nell’attesa del caffè, osservando uno dei pupi, inizia ad introdurre alcune differenze, tra le maestranze della Sicilia occidentale e quelle della Sicilia orientale.
“Il paladino catanese ha sempre la spada in pugno, l’armatura differente e le gambe rigide – afferma Scalisi, maniando uno dei suoi modelli – a differenza di quello palermitano che può inginocchiarsi e sfoderare la spada”.

Respirando l’atmosfera artistica, di una cultura che raggiunse l’apice del successo fino all’avvento del cinematografo e che oggi, tende ad addormentarsi tra le braccia dell’oblio, abbiamo sentito la necessità di chiedere, al maestro Scalisi, di illustrarci dettagliatamente il processo per la realizzazione di un pupo, al fine di conservare qualche stralcio di questa tradizione, da tramandare obbligatoriamente ai posteri.

“Questi sono dei modelli – esclama il maestro, rovistando all’interno di uno scatolo – ritagli il pezzo di alpacca, lo vai sagomando – spiega mentre modella con le mani il ritaglio di rame bianco per il fodero del pupo – e successivamente vai a creare il bassorilievo attraverso l’uso degli attrezzi”.

Tornati al tavolo, per sorseggiare il buonissimo caffè che la signora Scalisi ha preparato con piacere, Pietro ci mostra un libro, intitolato L’opera dei Pupi in Sicilia, di Giovanni Arcidiacono, pubblicato nel 2008, il quale censisce le botteghe dei pupari siciliani. L’artigiano – figlio di Ciccio, costruttore di pupi all’inizio del Novecento, abile nella realizzazione di armature – inizia a collaborare col padre negli anni settanta, lavorando in vari laboratori nel palermitano, prima di inaugurare la bottega U Palarinu, in via Cappuccini.
“I pupi di Pietro Scalisi sono i più belli in assoluto – dice Scalisi emozionato, leggendo la valutazione dello scrittore – ecco, questa cosa per me è stata motivo d’orgoglio considerando che l’autore è catanese e che anche in questo campo c’è stata rivalità – conclude.

“Secondo il professor Pasqualino – Antonio Pasqualino (1931-1995), medico di fama internazionale, già docente presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo e specializzato negli studi antropologici e semiotici – la prima scuola nasce a Napoli – afferma Scalisi – con la famiglia Greco che, con l’ausilio dei pupi, rappresentavano scene di Camorra, prima dell’Unità d’Italia”.

Sostiene il maestro che, in principio, i pupi venivano realizzati con carta stagnola e materiali di riciclo e che Canino, ispirato da una corazza del Cinquecento, in seguito ad una visita al museo, introdusse l’armatura nella tradizione delle marionette, realizzando l’ossatura del pupo in legno, per garantire la giusta resistenza.

Intanto, nel fondo della tazza, non resta che qualche rimasuglio di caffè. Il maestro, però, non ha alcuna intenzione di terminare la chiacchierata. Anzi, ci ha preso gusto e comincia ad introdurre la sua esperienza negli Stati Uniti, nel 2000.

“Io sono andato a Dallas con Onofrio Sanicola – oprante, nato a Marineo nel 1942 – per esibirci. Lì ebbi l’occasione di sperimentare la decapitazione del pupo, durante la lotta”.
Sostiene Pietro, che durante i duelli, era abitudine far “saltar la testa”, al paladino, con un taglio netto parallelo al “piano frontale”. “Ma picchì sta testa s’ha tagghiari accussì, pinsava. Allora ho escogitato un altro metodo, più corretto. Durante le notti, osservavo il pupo per capire come fare”.

Non appena tornato nel capoluogo e, recatosi al suo laboratorio, l’artigiano sezionò il capo della marionetta in mezzeria lungo l’asse sagittale – ortogonale alla fronte – e, attraverso i buchi regolamentari, applicò del cuoio nella parte inferiore per incernierare le due parti, vincolate a sua volta da una forcina legata ad un filo al centro della calotta.

Durante la tenzone, attraverso questo meccanismo, era possibile tirar via la forcina attraverso il filo, in seguito ad un colpo di spada e restituire allo spettatore, l’illusione del capo ghigliottinato dalla lama.

Un’ulteriore tematica, affrontata col maestro, è stata quella inerente al metodo di rappresentazione dell’opera cavalleresca.
“Preferivo esibirmi entro le quinte del teatrino, piuttosto che a vista – asserisce Scalisi – mi faceva sentire più sicuro”.
Negli occhi dell’uomo, scavando sui suoi ricordi, riuscivamo a leggere certe emozioni. Continuando a sfogliare il testo di Arcidiacono e, osservando la foto di un paladino in particolare, Pietro Scalisi ha rammentato una triste vicenda.
“Questo me l’hanno rubato – esclama indicando il pupo in foto – sono entrati nel mio laboratorio di notte, trafugandone tredici” conclude, con sguardo deluso.
Non vi nascondiamo che, in seguito all’episodio rievocato e, dinnanzi a quella triste espressione, anche noi ci siamo sentiti derubati. Un pezzo di storia finito chissà dove. Ma il maestro, da quando ha cominciato, non si è mai arreso.
“Mio padre è stato il mio maestro. Mio nonno, invece, era un maestro di ferro battuto e contribuì alla realizzazione delle prime biciclette ottocentesche”.
Ciccio Scalisi, detto “u Passalittra”, in quanto impiegato alle Poste, ebbe la possibilità di frequentare, sin dalla tenera età, i vari teatri locali, imparando i metodi di rappresentazione oltre che il lavoro artigianale.
“Anche io ho avuto degli allievi e, proprio come mio padre, la possibilità di tramandare questa magnifica tradizione"
Tra una chiacchierata e l’altra, all’interno di quella abitazione, il tempo si era fermato e, senza neanche accorgercene, s’era fatta sera. Di certo, avremmo volentieri sorseggiato un’altra tazza di caffè. Un caffè amaro, ma dal sapore idilliaco.