La mafia offende il bello, la corruzione indebolisce la società civile

Un momento dell'incontro

Ieri a palazzo arcivescovile il convegno sul tema “Giustizia e bellezza”

MONREALE, 17 settembre – “Ricordiamo la rabbia che Totò Riina esprimeva, nelle conversazioni intercettate, nei confronti di don Pino Puglisi, accusato di non fare il “parrino”, perché lavorava sull’educazione dei poveri ed emarginati, sottraendo manovalanza alla criminalità organizzata”. Sono alcune delle parole pronunciate dal magistrato Nino Di Matteo nell’ambito dell’incontro, presieduto dall’arcivescovo di Monreale Michele Pennisi, svoltosi presso il Palazzo arcivescovile, ieri pomeriggio, sul tema “Giustizia e bellezza”, che rientra fra le iniziative promosse per la festa di Avvenire.

Il dibattito ha preso spunto dal libro “Corrosione. Combattere la corruzione nella Chiesa e nella società” del cardinale Peter Turkson e del filosofo Vittorio Alberti, presente ieri a Monreale, così come il nunzio Silvano Tomasi e Marco Tarquinio, direttore di Avvenire.
L’arcivescovo Pennisi ha riflettuto sull’impossibilità ontologica per la mafia di apprezzare e preservare la bellezza: “Ricordiamo il programmato, e per fortuna fallito, attentato nei confronti del presidente del Senato Piero Grasso, quando si recava in visita al suocero nel quartiere Ciambra di Monreale, che oltre ad offendere la vita umana, avrebbe danneggiato le absidi del duomo. E come dimenticare gli attentati ai Georgofili o a San Giovanni in Laterano. La mafia offende il bello. Riflettiamo, dunque, sulla virtù cardinale della giustizia, sintesi fra vero e bello”.
“La corruzione entra – ha spiegato il nunzio Alberti – come un tarlo fra i cittadini e le istituzioni, indebolendo la società civile e determinando un inaccettabile paradosso: si ritiene che la giustizia blocchi i percorsi burocratici e la corruzione sia la via dell’efficienza. Questa è la prima Chiesa locale ad affrontare pubblicamente il tema della corruzione”.
Pennisi è intervenuto con durezza con i decreti diocesani, vietando ai condannati per mafia di appartenere alle confraternite, oltre che di proporsi come padrini di Battesimo e Cresima. Inoltre, è stata rimossa una targa con il nome di Michele Navarra dalla panca di una chiesa.
Nel corso dell’incontro è stata più volte citata l’introduzione di Papa Francesco al libro, da cui sono anche emerse le essenziali differenze fra la giustizia ecclesiastica e civile. Ad esempio, Papa Francesco ha paragonato la corruzione ad un cancro che esige una massiccia dose di chemioterapia, ma poi si deve intervenire con il momento della riabilitazione, cioè l’obiettivo ultimo della Chiesa è la conversione dei cuori.
Diversa, va da sé, è la prospettiva della giustizia umana, di cui una toccante testimonianza è stata fornita proprio da Di Matteo, da anni in primo piano nel contrasto alla mafia.
“Avverto – ha detto Di Matteo – una dicotomia normativa nel contrasto fra i reati di tipo mafioso e quelli contro la Pubblica amministrazione, al punto che sono pochi i detenuti per tali reati. Dal punto di vista della politica criminale tutto ciò è preoccupante perché alimenta il sentimento di impunità, tanto più che abbiamo esperienza di come la mafia ricorra a diverse strategie, violenta ma anche collusiva, per raggiungere i propri scopi. Da magistrato e da credente, non possono che darmi speranza le parole vibranti di condanna da parte di Giovanni Paolo II nella Valle dei Tempi e quelle, più dimesse nei toni, ma accorate nel contenuto, di Papa Francesco. Segnano un nuovo corso nella Chiesa i cui legami, purtroppo, hanno alimentato quel falso senso di religiosità dei mafiosi, i cui metodi, compresa la capacità di uccidere il figlio o il padre per il potere o il denaro, sono l’esatta antitesi del messaggio evangelico. Così se allo Stato spetta perseguire e condannare, pertiene a tutti i cristiani e ai credenti la denuncia”.