Lo sciopero dei dipendenti del Colosseo, necessario mediare per tutelare le esigenze di tutti

Il parere del nostro esperto di Beni Culturali su una vicenda che ha fatto parlare il mondo intero

ROMA, 20 settembre - L'approvazione del decreto legge sull'inserimento della fruizione del patrimonio culturale tra i servizi pubblici essenziali pone delle riflessioni serie all'interno del sindacato inteso nella sua complessità. Non si può non prendere spunto per non riflettere.

È ormai indubbio che, nel nostro Paese, vi è in atto un braccio di ferro tra il mondo sindacale e i vari governi, da quello nazionale a quelli locali. Si tende a restringere libertà conquistate in durissimi decenni di lotta. Il Paese, di contro, assiste passivamente a tali continue erosioni di libertà ritenendo che la questione non lo riguardi e invece lo riguarda e anche tantissimo. Poco o nulla importa se a proclamare un'assemblea di tre ore al Colosseo, assemblea regolarmente indetta, autorizzata e pubblicizzata, siano stati lavoratori che non percepiscono salario dal mese di novembre 2014, quando proprio questa è, invece, una vera peculiarità sindacale: salario legato al lavoro effettivamente svolto nell'interesse della collettività, avendo come fine l'offerta di un servizio.

Alea iacta est verrebbe da dire. Quanto accaduto dinanzi la soglia dell'Anfiteatro Flavio è solo un pretesto, l'epilogo di una fase del braccio di ferro di cui innanzi. La leggerissima goccia che ha fatto traboccare il vaso si è riversata con una pesantezza infinita e non è parso vero al governo nazionale, ai suoi adulatori e detrattori di diritti, cogliere l'occasione per potere intervenire e agire con determinazione utilizzando strumenti spropositati e tipici non di uno Stato di diritto bensì di uno Stato di Forza, di uno Stato che non ha nella propria struttura il dialogo, che non intende risolvere i veri problemi che pervadono il mondo del lavoro - contratti non rinnovati da quasi un decennio, insufficienti risorse destinate alla cultura, insufficiente personale da destinare alla salvaguardia del patrimonio culturale, parte della normativa del lavoro ormai arcaica, altra invece recente, ma non attuata perché, anche in questo caso, la politica decide di non allocare risorse - salvo poi intervenire, giustificandone l'azione, erodendo diritti sull'onda mediatica delle proteste di coloro che hanno subìto l'applicazione di un diritto riconosciuto dall'attuale normativa sindacale.

Dinanzi al malumore manifestato ieri dinanzi all'Anfiteatro più grande e più famoso al mondo è emerso prepotentemente il disagio di coloro che sono rimasti dietro i cancelli chiusi del medesimo sito culturale, non avrebbe potuto essere diversamente, troppo forte l'eco che ritorna a noi, ma nessuno dà voce al flebile ma nobilissimo diritto di percepire una "giusta mercede", per avere onestamente lavorato, al contrario questo diritto viene deturpato e spazzato inesorabilmente dalla gogna mediatica qualunquista e pressapochista e sacrificato sull'altare di una fantomatica immagine deturpata della nazione. Si “la giusta mercede”, frase, mi sia concesso, presa in prestito da un'enciclica di fine ottocento, dove accanto al dovere della laboriosità, figurava il dovere dei proprietari delle aziende di retribuire i propri dipendenti proprio con “la giusta mercede”, rispettando la loro dignità, senza declassare il loro lavoro a una merce, da acquistare al prezzo più basso possibile e, aggiungo, senza permettersi il lusso di pagarlo dopo un anno dall'averlo svolto.

La democrazia impone il dialogo istituzionale, possa piacere o meno, la mancanza di dialogo tra istituzioni è l'anticamera della deriva di una qualsiasi società democratica verso altre forme di governo di matrice assoluta. Tutto ciò è da evitare, come sono da evitare le scelte unilaterali e non condivise con gli interessati. Ciò non produce buoni frutti ma solo a mostrare la forza avendo la consapevolezza che la forza genera altra forza e quindi altri disagi. Il dialogo, invece, inteso come luogo naturale all'interno del quale maturare decisioni condivise nell'interesse della globale collettività e dove tutelare le legittime aspettative di quanti programmano, magari da mesi, di vivere intensamente i luoghi del patrimonio culturale, storico e artistico con il corpo e con l'anima.

Perché vivere, conoscere un bene culturale significa arricchirsi interiormente e tutto ciò non può essere assolutamente vanificato. Si dialoghi e si trovino caparbiamente soluzioni condivise, lo si faccia per il bene del nostro Paese.