La banalità del bene, metafora del nostro tempo, in attesa della luce in fondo al tunnel

(foto Giuseppe Giurintano)

La voglia di riprendere da dove abbiamo lasciato

MONREALE, 26 aprile – Anno bisesto anno funesto, stupide superstizioni per dare una giustificazione agli eventi tristi che colpiscono la nostra amata terra; nel mondo sono sempre succeduti terremoti, alluvioni, carestie, conflitti ed emergenze di vario genere che hanno coinvolto e sconvolto intere aree geografiche, davanti ai quali l’uomo ha sempre trovato la forza di reagire, di ricostruire e riportare le cose alla normalità.

Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi è qualcosa a cui non eravamo preparati, una guerra dove non ci sono eserciti contrapposti, non ci sono soldati che uccidono soldati, non ci sono aerei, missili, bombe e carri armati, nulla di tutto questo, ma un virus venuto non si sa come e da dove, infinitamente piccolo, invisibile e subdolo.
Qualcosa d’inimmaginabile fino a poche settimane fa, qualcosa di mutevole e pericoloso che non conoscevamo e che sta mostrando tutta la sua forza devastatrice sconvolgendo l’intero pianeta, l’intero sistema di vita e di abitudini dei popoli con il quale si dovrà fare i conti nel nostro presente e nell’immediato futuro.

Qualcosa che sta portando via la memoria dei nostri padri, l’affetto delle nostre madri e delle nostre famiglie, la memoria del nostro passato.
La dura realtà quotidiana vissuta nel silenzio delle nostre case, nelle corsie degli ospedali, la povertà silente e dignitosa che grida con forza, l’immagine della morte trainata da file di camion dell’esercito per le strade del nostro Paese, la lotta frenetica contro il tempo per la risoluzione dell’emergenza, le lunghe e tormentate giornate scandite dai bollettini della protezione civile, la banalità del bene sono le pagine di un diario scritto dai familiari che hanno perso i loro cari, che non avremmo mai voluto leggere.
Medici e infermieri, come tanti Perlasca, - il commerciante padovano che nell’inverno del 1944 a Budapest salvò migliaia di ebrei dallo sterminio nazista - si adoperano per curare i malati nella speranza di riconsegnarli all’affetto dei loro cari.
Il Papa che si inginocchia per pregare davanti alla potenza di Dio facendosi carico della sofferenza dell’intera umanità in uno scenario vuoto, ma suggestivo è la fotografia del nostro tempo.

Accanto alla tristezza di queste pagine grigie vi è la consapevolezza di essere un grande paese con tante contraddizioni, ma con un cuore grande e una grande voglia di combattere e di lasciarci alle spalle la storia di questi giorni.
Eppure, un cambiamento è accaduto nel nostro modo di vivere e di guardare le cose, un mutamento epocale, un nuovo modo di affrontare le umane vicende di una vita posta in pausa, che dovrà essere rimodulata nell’attesa di tornare alla normalità.
La pandemia ci ha reso più forti, più consapevoli, forse anche più solidali verso gli altri individui, ha risvegliato in noi quel senso di appartenenza e di comunità.
La nostra vulnerabilità, la nostra debolezza, il dolore e lo sconforto sono le nostre armi migliori, la nostra forza.
La voglia di rinascita, la speranza di una luce in fondo al tunnel, il calore di un abbraccio, una pacca sulle spalle, il vocio festante dei bambini che corrono per strada, il sorriso di un anziano a cui tendiamo una carezza sono valori irrinunciabili che nessuna guerra, nessun virus potrà mai cancellare.