La settecentesca impostura del ''Consiglio d’Egitto'': ecco cosa successe

Il romanzo-capolavoro di Leonardo Sciascia, oggetto della lucida riflessione dello scrittore e docente monrealese Salvino Caputo, si sviluppa, a mio avviso, partendo da due questioni fondamentali: 1)l’impostura della storia, notoriamente e oppressivamente caratterizzata dal dominio dei baroni del feudo e dalle alte gerarchie ecclesiastiche, di cui l’inganno ordito dall’abate Vella altro non è che un furbesco rovesciamento;2) le idee illuministe e riformiste del giovane avvocato Francesco Paolo Di Blasi che pagò il suo tentativo rivoluzionario di modernizzare la Sicilia con l’arresto e la condanna a morte (fu decapitato nell’odierna Piazza Indipendenza nel lontano 1795).

Una deprecabile quanto ineluttabile dicotomia che peserà sempre e non poco sull’evolversi degli eventi nostrani, al punto da far ritenere irrealizzabile ogni proposito di progresso della Sicilia. Sciascia non condivise e affidò al suo “Consiglio d’Egitto” e, dunque, allo scritto il compito di svelare le malefiche imposture per contribuire a formare una nuova coscienza pubblica. Nella quale la Ragione, il diritto, il rispetto della dignità dell’uomo, il riscatto sociale e l’etica siano le nuove linee guida di una più umana ed evoluta società. Nel ‘700 circolavano in Sicilia, e non solo, una moltitudine di truffatori e impostori ,di ogni risma , emblematicamente rappresentati da alcuni soggetti come il Vella o Giuseppe Balsamo alias conte di Cagliostro ( comunque, con il senno di poi, di “qualità” inferiore agli odierni impostori che si annidano in tutti i gangli della società civile) e un nucleo di personalità che eccellevano nel diritto, nelle arti e nella letteratura ( oltre al Di Blasi è sufficiente ricordare il vicerè Domenico Caracciolo, che abolì l’abominevole Tribunale dell’Inquisizione, e il poeta Giovanni Meli letterato di prima grandezza), impegnati, con i loro scritti e la loro azione, nel “rinnovamento” della feudale e arretrata Sicilia. Se non ci fossero stati quest’ultimi ed altre personalità, anche di origini nobiliari, che per ragioni di spazio non citiamo, non avremmo avuto la Costituzione del 1812 , nè la rivoluzione indipendentista del 1848 e men che mai il Risorgimento e il 1860.


Il prof. Caputo ha ben descritto i termini e gli attori della “più grande impostura” italiana di fine ‘700. Aggiungerei due figure fondamentali che, come ha sottolineato Sciascia, si sono incaricati di “trovare” le prove dell’impostura lasciandosi guidare dalla cultura, dalla ragione e dalla competenza. Mi riferisco all’erudito, insigne storico, giurista e ecclesiastico mons. Rosario Gregorio (1753-1809) e al famoso arabista Giuseppe Hager, che insieme hanno organizzato la controffensiva per “sbugiardare” l’abate Vella. In breve nel falso codice arabo “confezionato” da questi, vennero scoperte notevoli lacune storiche, sgrammaticature, date errate. L’impostura è provata e l’abate maltese viene inchiodato alle sue responsabilità. La fama del Vella perde di colpo prestigio e credibilità. E’ mollato dai suoi furbi e più o meno occulti “protettori”. Viene arrestato e processato. Nel 1796 sarà emessa una sentenza che gli comminerà 15 anni di prigione e la confisca di tutti i beni. Scontati tre anni di carcere, nel 1799, il Vella è confinato in un sobborgo palermitano. Morirà nel 1815 sei anni dopo la scomparsa del canonico Gregorio. Ironia della sorte, verrà seppellito nella chiesa di San Matteo in via Vittorio Emanuele a Palermo, e nella stessa cappella dove da più di un lustro riposava, in pompa magna, il Gregorio.

Si perché, quest’ultimo, è ricordato, giustamente, ai posteri con un barocco monumento funerario, in cui spiccano un busto marmoreo e fregi ecclesiastici in quanto in vita egli fu rettore di S. Matteo e parroco della Cattedrale. Mentre l’abate Vella può contare appena su una minuscola, sbiadita e scarna lapide, sotto il severo e diretto sguardo marmoreo di chi scoprì la sua arabica impostura. Paradossalmente nella cappella convivono e sono plasticamente rappresentati, da oltre due secoli, i simboli funerari di due uomini che hanno condotto due opposte battaglie: una per l’affermazione della “verità”, l’altra, misera e furbesca, per il perpetuarsi della “impostura”. Insomma l’ineluttabile dicotomia che lungi dall’essere superata, caratterizza ancora (in negativo) le relazioni umane e sociali. Con tutto quel che ne consegue in termini di “crescita” civile e culturale. Nondimeno l’acuto insegnamento di Sciascia e il suo esempio non devono essere dispersi. La battaglia contro l’impostura, ovunque si annida, continua e non importa se a condurla sia una sparuta minoranza di volenterosi che credono nel valore “rivoluzionario” delle idee, senza se e senza ma.