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La leggendaria narrazione di due famiglie della Palermo ''del fare'' nei romanzi di Stefania Auci e Agata Bazzi

La Sicilia letteraria non finisce mai di stupire. Accade molto di rado che due romanzi storici, pubblicati da due importanti case editrici quasi contemporaneamente (riguardanti la saga di due differenti “potenti” famiglie che a cavallo tra il XIX e XX secolo hanno segnato profondamente la vita economico-sociale di Palermo ), pensati e scritti da due autrici di marcata femminilità, entrambe nate e cresciute in Sicilia e fino a pochi mesi fa poco note al grande pubblico dei lettori, raggiungano (non solo in Sicilia) la vetta della graduatoria dei libri più venduti della narrativa italiana dell’anno di grazia 2019.

Insomma un successo inaspettato, con ogni probabilità non pianificato, di cui tanto si discute nel variegato mondo dei media, nelle librerie, nelle istituzioni e sodalizi culturali vari. Sorge, allora, spontanea la seguente domanda: perché si è verificato un siffatto diffuso crescente interesse dei lettori con conseguente vertiginoso aumento delle vendite? I due corposi romanzi, “I leoni di Sicilia” di Stefania Auci (edizione Nord, gruppo Gems) e “La luce è là” di Agata Bazzi (edito da Mondadori), anche a giudizio della più affermata critica, hanno il pregio di catturare l’attenzione del lettore perché, per dirla in breve, le storie raccontate sono solide, coinvolgenti e non banali. E poi , cum grano salis, sono state scritte seguendo, quasi alla lettera, il classico e assai noto “canone” calviniano. Secondo cui, per farsi comprendere dai lettori, non bisogna mai perdere di vista gli essenziali ingredienti che rendono godibili periodi e capitoli: semplicità, esattezza, leggerezza, rapidità, molteplicità e, infine, visibilità. Un “miscuglio” ben amalgamato che trasforma la scrittura semplice in “valore”, capace di affascinare e di parlare al cuore e alla mente di chi legge. La Auci, 45 anni, di professione insegnante presso un istituto alberghiero di Palermo, ha dato alle stampe un romanzo storico di oltre 400 pagine la cui trama (l’ascesa e il declino dei Florio fra successi, affari, ricchezze, sfortuna e vicissitudini varie), ormai, è abbastanza conosciuta in quanto il libro si trova, da mesi, collocato ai primi posti della top ten dei testi di narrativa più acquistati in tutto il Paese e, in più, ha ricevuto, dopo qualche critica stonata intrisa più di invidia che di contenuti, un numero incalcolabile di recensioni positive prive di blandizie. Motivo per cui ci appare poco utile aggiungere altro rispetto a quanto si è detto e scritto, esaurientemente, sull’autrice e sulla sua poderosa e affascinante opera che, come è stato annunciato dalla Auci, avrà, fra qualche anno, un seguito.

In questa sede , dunque, rivolgeremo la nostra attenzione e curiosità letterarie all’altro romanzo (verso il quale, sia detto per inciso, siamo debitori di un’annunciata recensione) anch’esso oscillante fra storia e saga familiare, dall’emblematico titolo : “La luce è là”. L’autrice, come è stato ricordato, è Agata Bazzi, architetto palermitano di 63 anni, per un periodo assessore comunale al territorio. Inoltre è una discendente degli Ahrens, ossia la famiglia di origine tedesca ma anche ebraica che, tramite il capostipite Albert, fece fortuna, dal 1875 in poi, in una Palermo piena di vitalità in cui primeggiavano gli industriali Florio. Nelle 365 dense pagine di questo romanzo, è narrata, appunto, la storia, durata tre quarti di secolo, di Albert e della sua numerosa prole. Un nucleo compatto e felice, senza grilli per la testa, che aborriva gli sfarzi conducendo una vita rigorosamente sobria in cui il lavoro imprenditoriale è stato l’unico denominatore comune , o meglio l’elemento distintivo, ma anche lo strumento di una inarrestabile ascesa economica e sociale. Alla quale, anche e prevalentemente a causa del deleterio “peso” di fatti esterni , subentrò la decadenza e il dissolvimento . Albert Ahrens era nato a Varel, presso Amburgo, nel 1852. Giovanissimo giunse in Italia, stabilendosi prima a Napoli ( per un breve periodo) presso uno zio titolare di una agenzia di import-export e, poi, a Palermo dove fu indotto a rimanere, era appunto il 1875, sia per motivi lavorativi che per la salubrità del clima particolarmente adatto alla sua cagionevole salute. Ben consigliato da personaggi come Ignazio Florio e Gianbattista Caflisch (quest’ultimo suo coetaneo e rampollo di una famiglia di pasticceri svizzeri proprietari di lussuosi caffè a Napoli e Palermo), nel giro di qualche anno Albert fondò, in via Ruggero Settimo, la “Ahrens & C.” per la vendita di stoffe pregiate , biancheria e guanti. Successivamente realizzò una fabbrica di mobili artistici con sede in via Cassari e poi, intorno al 1915, la “Officine mobili Ahrens” con locali espositivi nel palazzo De Stefano vicino al suo avviato negozio di stoffe. Nell’arco di sei anni (1884-1890), costruì una moderna industria enologica con annessa una comoda residenza privata, in località San Lorenzo Colli. Nacque così “Villa Ahrens”, oggi di proprietà dello Stato e adibita a sede della DIA, nella cui facciata principale spicca ancora la scritta LIK DOR ( “ La luce è là ”, scritta che Agata Bazzi ha avuto l’accortezza di utilizzare come significativo titolo della sua fatica letteraria). Nel 1891, all’Esposizione Nazionale allestita a Palermo, il vino dell’imprenditore tedesco fu premiato con diploma d’onore. Intanto andavano a gonfie vele tutti gli affari negli altri settori commerciali da lui avviati. Dopo un favoloso decennio e mezzo, una prima battuta d’arresto nella crescita delle sue attività si ebbe per effetto del devastante terremoto di Messina del 1908 e, a seguire, per la partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale cui subentrò la grave crisi economica post-bellica. Superata la quale, sul finire degli anni trenta del secolo scorso, a causa delle leggi razziali imposte dal fascismo, le cose per gli Ahrens non andarono più per il verso giusto.

Le origini ebraiche della famiglia, inoltre, furono una importante concausa del loro inarrestabile declino finanziario . Declino cui non assistette Albert, dato che scomparve, dopo lunga malattia, il 17 maggio 1938, sei mesi prima dell’emanazione del primo provvedimento voluto da Mussolini per “la difesa della razza”. Lo stabilimento e la grande casa di San Lorenzo furono, si fa per dire, “cedute” all’Esercito italiano per esigenze militari. Dalla moglie Johanna Benjamin, proveniente da una illustra famiglia di Amburgo, Albert ebbe 8 figli di cui due maschi che non poterono seguire le attività paterne perché morirono in giovane età. Roberto a causa di un incidente ferroviario in Sicilia, mentre Erwin, medaglia d’argento al valor militare, a causa delle ferite riportate nel corso della grande guerra pose fine alla sua vita suicidandosi. Una loro sorella, Vera, moglie dell’ingegner Settimo Morello, morì, invece, ad oltre 104 anni di età nell’agosto del 2001. Sono proprio le figlie ( soprattutto Marta, Vera, Berta e Margherita ) insieme allo loro madre, il “perno” della casa. Nei momenti difficili , con grande dignità, saranno loro a portare la “luce” dei valori che hanno sempre ispirato gli Ahrens, ovvero coraggio, rigore e determinazione. Agata Bazzi per scrivere il romanzo , ha lavorato sodo per alcuni anni riordinando materiali, ricordi, antiche memorie non scritte. Lei stessa, si è fatta carico di “avvertire” i lettori che il libro è stato composto ricorrendo ad una sorta di “astuzia” letteraria: l’io narrante è essa medesima, però, con l’ausilio del diario del suo antenato Albert e del racconto della figlia di lui, Marta, in vita quasi sorda, e che la Bazzi considera la “vera narratrice”, la memoria storica della famiglia. La scrittrice ha ricostruito la giovinezza di Albert con puntualità e precisione servendosi del suo diario. Perché, in fondo, Albert la sua storia, fatta di audacia e intelligenza, ci teneva davvero a raccontarla. Poi , nel bel mezzo del romanzo, Agata Bazzi fa entrare in scena Marta e i suoi, a tratti ,toccanti ricordi. Marta è una donna molto sensibile, attenta conoscitrice dei fatti di famiglia, interprete dei silenzi ,dei discorsi e delle azioni del padre, forse la sua “vera” erede. Marta rievoca i momenti più difficili della famiglia, li contestualizza, senza cedere ai richiami del pietismo e della commiserazione.

E’ un pozzo di memorie, sicuramente una delle poche della famiglia in grado di fare emergere quella, che molti considerano, la storia di un casato che, partendo quasi dal nulla, ha contribuito non poco con il lavoro , la lucida inventiva e la positiva ambizione , ad orientare, insieme ad altri capitani d’industria e commercio, pur con tutte le contraddizioni di un’area arretrata del vasto Sud, lo sviluppo della città e dell’intera Isola. Impresa ardua in quanto tutto era davvero più difficile e il sottosviluppo, economico e civile, la faceva da padrone ( altro che “Palermo felicissima”!). C’è da sottolineare, infine, che è tutto merito di Agata Bazzi, delle sue conoscenze professionali e forse anche della esperienza acquisita quando è stata chiamata ad amministrare la città, se il suo romanzo si aggiunge ai pochi nei quali le storie si sviluppano avendo come sfondo o sono intrecciate con il centro e la periferia di Palermo, con i teatri, gli alberghi e i palazzi più rinomati, con le piazze storiche, i mercati, le fontane, le strade e i giardini pubblici , risalenti al periodo della Belle époque. Uno scenario in cui letteratura, luoghi, ambienti, narrazione rivivono e con essi la memoria collettiva di una città dove gli abitanti sembrano accettare una magra quotidianità avulsa dal suo, per certi versi, glorioso passato. In sintesi: quello della Bazzi è un libro che ci voleva perché , intanto, colma un vuoto ( chi ha mai scritto con tanta completezza qualcosa sugli Ahrens?) e allo stesso tempo fa riflettere su un periodo storico cittadino dove “il fare” soppiantava “il non fare” o, quantomeno, lo conteneva. Grazie soprattutto all’apporto di investitori prevalentemente europei che hanno creduto, non a torto, nelle potenzialità della Sicilia, del suo clima e della parte migliore dei suoi abitanti. E oggi?