Quando si morì ''senza un tocco di campani''

Analogie tra la pandemia della Spagnola e il Covid-19

Le recenti misure restrittive per contenere il contagio da Covid-19, riguardanti le celebrazioni eucaristiche ed in modo particolare i funerali, potrebbero sembrarci eccessive. Eppure, possiamo trovare nel passato strategie analoghe e indubbiamente ancora più limitanti, che ci aiutano a comprendere la gravità della pandemia in corso e il modo in cui la Chiesa agì, attenendosi con grande senso di responsabilità a tutte le limitazioni dello Stato, facendo la sua parte e condividendo con il popolo la sofferenza delle incalcolabili morti e dei lutti.

Nonostante i progressi della scienza medica, oggi come allora si procede a tentoni, fronteggiando giorno dopo giorno un’emergenza di proporzioni e scenari non ancora ben definiti. E tutto questo con un grande sacrificio, che chiede a tutti e a ciascuno, corresponsabilità, solidarietà e abnegazione.
Un secolo fa la pandemia influenzale detta “Spagnola” colpì in modo tragico la popolazione mondiale, mietendo molte più vittime delle guerre mondiali ed incidendo sulla società e sulla cultura come nessun evento dopo la peste nera. Solo in Italia tra il 1918 e il 1919, a ridosso dell’inutile strage del primo conflitto mondiale (come lo definì Papa Benedetto XV), si stima che morirono circa 600.000 persone, quasi quanto i caduti in guerra nei tre anni precedenti. Secondo l’Istituto Centrale di Statistica, la regione italiana che ebbe in assoluto il numero maggiore di morti fu la Lombardia (36.653), seguita dalla Sicilia (29.966). Ma i dati sono solo indicativi.

Infatti, pochissime sono le informazioni certe su quel periodo. Basti pensare che ad oggi nel più grande catalogo bibliografico online, WorldCat, risultano censiti solo 400 titoli (in 5 lingue) sull’Epidemia più disastrosa del Novecento. La ragione è semplice: la censura civile e militare. Tutto ciò che veniva pubblicato doveva prima essere vagliato e, soprattutto, in un contesto bellico e conflittuale, era assolutamente vietato mostrare defezioni o l’assenza di una solidità interna. Il paese gemeva, da nord a sud, mietuto da un invisibile nemico. Poche notizie, annidate in piccoli trafiletti dei giornali dell’epoca, riuscivano a far trapelare qualcosa sul numero dei morti giornalieri o sulle proteste per la fame e le condizioni di vita ormai invivibili. Ma se capitò, fu solo per errore.

Come in molti ormai sappiamo, il motivo per cui quella tremenda epidemia fu identificata con la Spagna nasce proprio dalla censura operata in molti paesi durante la Prima guerra mondiale. I governi delle nazioni belligeranti, temendo che si diffondesse il panico tra la popolazione, cercarono in tutti i modi di non diffondere la notizia della pandemia. Le prime informazioni trapelarono dalla Spagna – che era neutrale e quindi priva di controlli sulla stampa – e spinsero gli altri Paesi a far credere che fosse circoscritta alla sola Spagna, dove peraltro si ammalarono sia il primo ministro che il re Alfonso XIII.

 

In questi giorni di pandemia, ho trovato molto interessante la lettura di un libro, ben documentato, di Eugenia Tognotti, dal titolo “La Spagnola in Italia. Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-1919)”, edito da FrancoAngeli, nella seconda edizione riveduta e ampliata del 2015. Il pregio del volume è quello di aver colmato una lacuna importante nella storiografia della medicina e della Sanità in Italia, attraverso un’approfondita ricerca d’archivio ed un attento esame della letteratura medica e degli strumenti di informazione dell’epoca. Inoltre, il volume fornisce una cronologia dell’epidemia in Italia, che ebbe la sua ultima e più virulenta ondata nell’inverno 1919, mettendoci a conoscenza degli effetti di quella pandemia attraverso le fonti della corrispondenza privata: lettere che contengono tracce non censurate della sofferenza del popolo italiano.

La censura non giustifica quanto poco si parlò della Spagnola, anche quando l’epidemia continuò ad imperversare nei mesi successivi alla chiusura del conflitto bellico. L’autrice ricorda che ad affiancare la psicosi collettiva, ispirata dalla censura militare, c’era la sdrammatizzazione della morte in quella che fu definita la guerra più sanguinaria della storia dell’umanità. Vi era la rimozione del lutto privato rispetto a quello collettivo, esaltato nella funzione patriottica delle morti, definite all’epoca eroiche e sante, in nome dell’Italia.

Sembra di rivivere a tratti un déjà-vu. La “Spagnola” era trasmissibile attraverso tosse e starnuti, o portando le mani alle mucose del naso o degli occhi, contaminate potenzialmente dal virus e veicolate dalla stretta di mano altrui o dal contatto di oggetti. Il virus dell’influenza entrava nell’organismo umano, attaccando le mucose del tratto respiratorio. Insomma, non molto diverso da quanto ormai sappiamo anche noi a motivo del coronavirus. Certamente, un ruolo decisivo nel contrasto dell’epidemia si ebbe nel ricorso alla disinfezione e alla sterilizzazione, nella pulizia delle strade – organizzando anche squadre di operai e di prigionieri –, nel favorire la buona ventilazione degli ambienti e la loro igienizzazione, soprattutto in tutti i luoghi di aggregazione sociale.

Come si evince da alcuni documenti prefettizi - ad esempio a Palermo – non da subito vennero messe in atto delle strategie di contenimento dell’epidemia. Se non le avessi lette in questo libro riferite ad un secolo fa, mi sembrerebbero una citazione tratta dai vari DPCM recenti. “La chiusura di scuole, chiese e teatri e la sospensione delle riunioni pubbliche… dei teatri e dei cinematografi… proibite le visite agli ammalati nelle case e negli ospedali, sconsigliatissimi i viaggi in treno e le cerimonie religiose e i funerali, che di lì a poco, furono vietati. Sospese le fiere e i mercati (specie l’esercizio di qualsiasi mestiere nelle vie e di vendita al pubblico di qualsiasi genere alimentare). La sera, dopo l’anticipata chiusura di osterie e ristoranti, le strade e le piazze delle città – su cui aleggiava l’odore dei disinfettanti – precipitavano nel buio: restavano aperte fino a tardi, o per tutta la notte, solo le farmacie. Su una società che cominciava a pregustare la fine delle privazioni e delle limitazioni alle libertà personali si abbatté una selva di avvertenze, ordini e divieti che militarizzavano la società e trasformavano anche il fronte interno in un fronte di guerra”. Analogie impressionanti che danno molto a pensare.

Uno degli argomenti che ho ricercato è legato all’ambito liturgico e religioso. Anche allora le processioni e le funzioni religiose subirono un arresto. Secondo l’autrice del libro, “le pratiche religiose non sembrano avere la centralità del passato sulla scena dell'epidemia. Poche - a giudicare da tutte le fonti disponibili - le processioni e le funzioni religiose, che nel colera dell'Ottocento radunavano folle impressionanti. Nelle decine e decine di lettere dirette all'estero si trova un unico riferimento ad una processione a Potenza in onore di San Rocco, santo guaritore degli appestati, secondo la tradizione. Mentre nei giornali si trova un solo comunicato relativo alla sospensione di una manifestazione religiosa: si tratta del pellegrinaggio al Santuario di Montevergine vietata da un'ordinanza emessa dal prefetto di Avellino”.

L’aspetto indubbiamente più delicato e critico di quel periodo riguardò i riti funebri. Infatti, le morti giornaliere nei centri più popolosi erano tali da contare nei momenti più critici circa 300 defunti. A Palermo la mortalità giornaliera si aggirava intorno a 20 decessi, ma il 25 settembre 1918 raggiunse la cifra di 177. Dovunque in Italia, le campane suonavano quasi costantemente a morto, e i rintocchi si univano al clima deserto e spettrale delle strade e delle piazze. Per questo, i prefetti e i sindaci imposero che le campane non dovessero più suonare, per non aumentare l’angoscia dei cittadini. Si moriva in silenzio e le per via del numero sempre crescente e ingestibile dei decessi, non c’erano bare a sufficienza e in molti casi anche dopo 5 giorni non c’era personale disponibile a poter prelevare il defunto da casa.

Annota una donna pugliese in una lettera al genero: “Non più preti, non più croci, non più campane”. Parole che dicono “l’angoscia e lo smarrimento di fronte alla proibizione di veglie funebri e al divieto di partecipare alle messe funebri e all'accompagnamento del morto al cimitero. Era talmente forte l'impressione suscitata da questi funerali «senza campane» e senza gente, in cui le salme venivano trasportate direttamente al cimitero senza passare dalla Chiesa, «come sacchi di seppie», che quasi tutti gli scriventi sentono l'esigenza di informarne i corrispondenti, nella convinzione che fosse sufficiente a dare l'idea di quanto «raccapricciante» fosse la morte per Spagnola: [...] I morti vengono trasportati nel carro a 5 o 6 la volta l'uno sull'altro, come sacchi di seppie [...] Si trasportano al cimitero col massimo silenzio per non fare impressione al popolo”.

Oltre al divieto dei funerali, sempre più numerosi di giorno in giorno, furono sospesi gli accompagnamenti funebri e quelli col Viatico per evitare occasioni di contatto. Nessuno dei familiari poteva seguire la carrozza tranne il sacerdote, che però doveva restare all’interno della vettura; inoltre, non era ammessa alcuna sosta in chiesa “per evitare affollamenti” (oggi li chiameremmo assembramenti). Sappiamo bene anche oggi come sia doloroso per noi presbiteri il fatto di non poter accompagnare chi è in agonia, specialmente chi dopo il contagio e la terapia intensiva non riuscendo a superare la crisi respiratoria, muore nella solitudine e senza il conforto dei parenti. Ed è ancora più doloroso, oggi come allora, non aver potuto celebrare le esequie, momento di conforto per chi resta, attraverso quegli atti di pietà religiosa, che con la prossima Fase 2 saranno nuovamente consentiti, fatte salve tutte le misure di contenimento.

Man man che crescevano i contagi e i morti, i prefetti emanarono disposizioni ancora più severe, regolamentando il numero massimo dei passeggeri nei tram, gli orari di chiusura delle bettole, delle osterie e delle rivendite alimentari. I giornali svolsero un ruolo importante nel divulgare dei “catechismi igienici” articolati per punti. Scrive la Tognotti: “Oltre alle immancabili esortazioni a non viaggiare, a sfuggire i luoghi affollati, a curare l'igiene personale, ricorreva quella di non trascurare i «lavaggi del naso con acqua fenicata» e, per coloro che assistevano gli ammalati, il consiglio di ungere le narici con vaselina borica. E ancora: tenere le unghie corte, far bollire il latte, lavare accuratamente frutta e verdura, evitare di esporsi a correnti d'aria col corpo sudato, non tenere il collo eccessivamente avvolto e non coprirsi oltre il necessario, non accostare il viso ad apparecchi telefonici”.

C’era ovunque una “fobia del contatto”, con l’ossessione delle disinfezioni. L’unico punto su cui i medici erano tutti d’accordo era quello di rassicurare la popolazione a “non avere paura”: un ritornello monotono nei giornali, nei manifesti e nelle dichiarazioni delle autorità. Era un modo, non so quanto efficace, per rassicurare gli animi e non aumentare i casi di depressione, che portarono alcuni a togliersi la vita, stretti dalla morsa del contagio. Oltre al divieto di sputare per terra, il quotidiano di Genova, il “Secolo XIX”, fu tra i pochi a comprendere nella lista il consiglio di “non baciare e non dare la mano”. Tuttavia, non tutte le fasce della società osservavano le indicazioni dei medici, specie nei quartieri popolari delle città, dove il contagio veniva favorito dalla povertà e dalla miseria dei luoghi di vita. Le norme di distanziamento sociale, messe in campo troppo tardi, erano “largamente inapplicate”.

La Chiesa non si sottrasse alla responsabilità di fare la sua parte. Per contenere il diffondersi del virus i vescovi adottarono nelle loro diocesi alcuni provvedimenti che avrebbero dovuto riguardare la sanificazione degli ambienti liturgici. Infatti, “a Milano una lettera pastorale dell'arcivescovo conteneva norme igieniche per la pulizia dei pavimenti e dei banchi degli edifici sacri e per la disposizione delle panche, che dovevano essere collocate in modo da evitare pericolosi contatti dei corpi. Speciale attenzione - raccomandava il presule - doveva essere dedicata all'acqua benedetta e ai confessionali, evidentemente ritenuti, data la loro funzione, particolarmente rischiosi. Ai sacerdoti erano riservate norme per la disinfezione dei paramenti sacri”.

Anche le chiese, i seminari, i collegi e le scuole ospitarono i malati, quando gli ospedali non riuscirono a contenere l’emergenza delle infezioni. “L'avanzata dell'epidemia da un quartiere all'altro delle città e dalle città alle campagne poneva sempre nuovi problemi di vuoti sanitari da riempire. Sindaci e prefetti non facevano altro che tempestare le autorità centrali lamentando l'inadeguatezza dell'assistenza sanitaria. Le richieste di medici provenivano da ogni parte d'Italia. Ovunque i sanitari erano troppo pochi per riuscire a rispondere alle richieste di un numero sempre crescente di ammalati”. Nel giornale “L’Ora” si legge il rapporto di un medico che attesta come nel settembre 1918 a Palermo c’erano qualcosa come 50.000 ammalati, che potevano contare su non più di 150 medici. Dati che danno la proporzione dell’emergenza sanitaria in atto, di un’epidemia che si protrasse fino al dicembre 1920.

A Milano, “le salme venivano portate nottetempo al cimitero con autocarri o con speciali treni tranviari funebri. Questi provvedimenti ebbero un enorme impatto sull’immaginario collettivo: orribili immagini di morti trasportati in carri collettivi, talora senza cassa, avvolti in un semplice lenzuolo, circolarono per la città”. Tutti chiedevano disinfettanti, ma ben presto la richiesta fu tale da portare all’esaurimento delle scorte e ad un fortissimo aumento dei prezzi, “tanto che in molti centri si chiese che fossero calmierati”.

L’aspetto più sconvolgente, aggravato dal conflitto mondiale, è senza dubbio quello della miseria, che si aggiungeva alla catastrofe sanitaria, per l’allungamento dei tempi annunciati di debellamento dell’epidemia e delle fasi discendenti, che non arrivarono in breve. I dati del razionamento alimentare – scrive la Tognotti nel suo libro – “danno un'idea di ciò che avevano a disposizione i sani per proteggersi e gli organismi debilitati dalla malattia per riprendersi. La «tessera» dava diritto al ritiro di alcuni generi che dovevano bastare per un mese: 700 grammi di pasta, 2 kg di riso, 1 kg di farina gialla, 2 etti di burro, un etto di formaggio da grattugiare, 0,200 litri di olio, 320 grammi di zucchero, 250 grammi di carne fresca e 450 di carne congelata”.

Se generalmente, com’è noto, le aggressioni epidemiche colpiscono più i poveri che i ricchi, la Spagnola sembrò sottrarsi a questa regola, come attestano le testimonianze dei medici e degli osservatori dell’epoca, indicando che l’epidemia non operò distinzioni di classe. A differenza del Covid-19 la Spagnola predilesse i giovani, di età compresa tra 20 e 40 anni, infierendo in modo particolare su giovani donne e ragazze, mentre risparmiò gli infanti e gli anziani. Quest’ultimi, probabilmente, per l’immunità della pandemia influenzale “russa” del 1889-90.

La pandemia della Spagnola fu considerata quasi un’appendice della guerra e fu avvertita anche con maggiore terrore. Lo testimoniano ad esempio alcune lettere del 1918: “Adesso che non c’è più la guerra e che perciò si potrà essere tutti più contenti, ci mancava il morbo e credilo che la gente è più afflitta adesso che quando c’era la guerra perché con la malattia vanno via famiglie intere”. Eppure non venne meno la fede, come leggiamo in un’altra lettera inviata da Castellammare di Stabia a New York: “Speriamo che come sta cessando la Guerra il Signore farà cessare anche questo maledetto male”.

Nessuno, di certo, avrebbe mai potuto immaginare che il secolo scorso si sarebbe chiuso senza aver chiarito del tutto il mistero del virus mortale della Spagnola, e che l’influenza sarebbe stata una delle malattie epidemiche con cui, nel terzo millennio, l’umanità avrebbe dovuto fare nuovamente i conti.
La storia ci sia maestra di vita per le sfide del presente e per l’avvenire.