''Lezioni di persiano'': quando le parole salvano la vita

Il ricordo della Shoah celebrato ieri sera da Raiuno con un grande film

Ogni anno, il 27 gennaio impone una battuta d'arresto nella frenesia del presente: un giorno dedicato alla memoria dell'Olocausto, che obbliga a fermarsi, a ricordare, un giorno che chiede di rinnovare una promessa, uno sforzo motivato, quotidiano, affinché ciò che è accaduto non accada mai più.

Il 27 gennaio è una promessa di impegno faticosa, ancor più per chi, come me, da genitore ed insegnante, è chiamato quotidianamente ad educare le giovani generazioni, è chiamato ad "educere" i ragazzi, "trarli fuori" dalla nebbia dei "non lo so", prima che questi ultimi divengano pericolosa tenebra dell'ignoranza.

Viviamo tempi complessi, cupi talvolta. Il progresso, i lati oscuri della globalizzazione, la velocità forsennata dei nostri giorni rischiano di lasciarci insensibili di fronte ai segnali di aggressività, di vera e propria ferocia, che giungono in modo più o meno subliminale alla nostra società, attraverso le infinite parole che "corrono" attraverso i canali dei nuovi media. Urge ancora "fare memoria". Abbiamo bisogno di un "Giorno della memoria". Ma cosa raccontare ancora? In che modo, soprattutto? Come evitare il rischio della retorica? Come "spogliare" la commemorazione dalla semplice ritualità: renderlo vivo, palpitante, nel presente? Servono "parole nuove".

Così, a poche ore dal "Giorno della memoria", per una volta restituita al ruolo di "educatrice", RAI1 offre in prima serata a me e a tutto il proprio pubblico un recente film sulla memoria: una memoria duplice, quella necessaria a noi spettatori per ricordare la tragedia della Shoah, quella del protagonista, strumento tecnico per "tenere a mente" una lingua di pura invenzione, unica speranza di sopravvivenza.

La vicenda prende le mosse in Francia, nel 1942. Un giovane ebreo belga, viene catturato durante un rastrellamento tedesco, ma riesce a sfuggire ad un'esecuzione sommaria, attribuendosi una falsa nazionalità persiana. Condotto in un campo di concentramento, attira l'attenzione del comandante Koch, che, spinto dal sogno di raggiungere il fratello che vive a Teheran e aprire un ristorante, chiede al prigioniero di insegnargli il farsi, l'idioma persiano. La vita del giovane è appesa, improvvisamente, ai filo di una lingua che non conosce e al rapporto che, attraverso la "costruzione" di questa, cementerà con il comandante tedesco.

Tratto dal racconto breve "Invenzione di una lingua" dello sceneggiatore e scrittore Wolfgang Kohlhaase e ispirato a fatti realmente accaduti, il film del regista ucraino Vadim Perlman, "Lezioni di persiano", racconta attraverso una vicenda "improbabile", una storia di coraggio, di follia, di acume, di attaccamento alla vita. Racconta una storia di sopravvivenza, legata a parole prive di senso, che tuttavia costituiscono il significato intimo dell'intera vicenda. Una pseudo-lingua persiana, che insegnante ed allievo apprendono contemporaneamente e che nasce sotto i nostri occhi, insieme all'amicizia tra i due protagonisti, ad un rapporto di fiducia, di credibilità, germinato dall'inganno.

Gli eventi della seconda guerra mondiale restano sullo sfondo ed anche il campo di concentramento, seppure accuratamente descritto, attraverso una fedele ricostruzione, non è che la scenografia di una vicenda interamente focalizzata sul rapporto tra due uomini, che si fanno emblema di due umanità. Un ebreo ed un tedesco, una vittima ed un carnefice. Due uomini diversi, ma accomunati da una profonda "ansia di futuro". Così non si può non provare empatia persino per il duro e meticoloso comandante Koch, che nel suo sogno, ci rivela tratti di insicurezza e di fragilità.

Resta, però, il volto del "persiano" ciò che colpisce e scuote: un viso che costituisce una spigolosa e scarna ambientazione in cui "recitano", da protagonisti, enormi occhi sgranati per paura, per coraggio, per infinita volontà di vivere. La sua fantasia genera un linguaggio e quando i nomi dei prigionieri del campo diventano le "parole nuove", il comandante Koch, ascoltando quei suoni, sospira: "Che lingua meravigliosa!" Ne rimane affascinato, tanto da comporvi addirittura una poesia. Koch diventa un uomo: "Chiamami Klaus!" dice al suo insegnante e i due si fanno più vicini.

Dopo la liberazione, le parole dello pseudo-persiano tornano ad essere nomi propri e il protagonista li ripete a memoria, uno per uno, duemilaottocento nomi, ad un meravigliato comandante americano, che riferisce con rammarico della distruzione del registro dei prigionieri. Il persiano ha salvato la propria vita e con essa la memoria di 2800 vite.

Oggi, a scuola parlerò ai miei allievi del film "Lezioni di persiano". Chiederò loro di commentarlo insieme e se, purtroppo, come temo, non lo avranno visto, perché "affaccendati in altre faccende social e non sociali" , sarò io a raccontare loro una storia: racconterò di "parole che salvarono delle vite".