La “Calata dei Veli”, un rito con 390 anni di storia

Ieri sera ultimo appuntamento in una Collegiata gremita. LE FOTO

MONREALE, 19 marzo – Una storia lunga 390 anni. Tanti quanti ne ha la festa del SS.Crocifisso che si rinnoverà il prossimo 3 maggio. È la storia della “Calata dei Veli”, il rito voluto dall’arcivescovo Gerolamo Venero nel XVII secolo, incentrato sulla passione e morte di Gesù.

Ieri sera il rito ha visto la sua ultima manifestazione di quest’anno in una Collegiata gremita, con tanta gente addirittura in piedi in fondo alla chiesa, dopo aver vissuto gli appuntamenti precedenti durante i venerdì di Quaresima.

Il rito, per quanto sia conosciuto perché antichissimo, merita di essere raccontato e consiste, appunto, nella calata dei veli (sono sei in tutto, più il drappo rosso con cui la cerimonia termina con la chiusura finale), che coprono il simulacro del Santissimo Crocifisso, fino a disvelarne l’effigie. Il tutto intervallato da preghiere canonizzate, che precedono il tradizionale suono della campanella, quando, appunto, al segnale convenuto, il buon Andrea Salerno, tra i maggiori attivisti della Confraternita ed allievo dello “zu Totò Farina” che per tanti anni svolgeva questo compito, fa scorrere i vari tiranti che reggono i veli, che vanno diradandosi fino a mostrare l’immagine del Cristo in croce. Un rito suggestivo, ancora fortemente sentito dai fedeli, che lo seguono con grande raccoglimento.

“Un rito che fa parte del nostro Dna – ha detto il rettore del Santuario  della Collegiata, don Giuseppe Salamone – e che è bene tramandare ai nostri figli”.

L’appuntamento di ieri sera, tra l’altro, è stato arricchito da una chicca: l’esposizione pubblica del “De modo discopriendi”, il testo seicentesco (è datato 1625), scritto per espressa volontà di monsignor Venero e musicato dal Maestro della Cappella musicale della cattedrale Sebastiano La Vega.

 Il testo, che si era perso, è stato ritrovato recentemente nell'archivio della Collegiata grazie all'attenta e amorevole ricerca di don Giovanni Vitale ed è stato quindi fatto restaurare, poiché era in cattivo stato di conservazione, per volontà di don Giuseppe Salamone, presso l'Officina della Memoria di San Martino sotto l'occhio attento dell'archivista Anna Manno. Il testo, adesso, è tornato in buone condizioni e costituisce un pezzo di grandissimo valore sia artistico che, soprattutto culturale.