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Smart working: un’occasione per ammodernare il modello organizzativo delle pubbliche amministrazioni

fumetto di Michele D'Amico

Parto da una considerazione che ha fatto parlare e gridare, nei mesi scorsi, allo scandalo i soliti noti avversari dei dipendenti pubblici, ivi compresa una certa stampa: il pagamento del buono pasto ai dipendenti pubblici che lavorano in smart working.

L’approccio dato alla discussione, come spesso accade, è stato fuorviante oltre che scorretto. Non si tratta di stabilire se secondo il parere personale di ciascuno sia giusto o meno remunerare il buono pasto per coloro che sono in smart working. La materia è molto più ampia di quanto si possa immaginare e, riflettendo sulle possibili conseguenze, esse potrebbero essere non indifferenti. Fare opera di riduzione, mi si permetterà l’analogia, è tipico di un certo giornalismo d’assalto che, pur di apparire o di vendere qualche copia in più, pone alla base di argomenti non i riferimenti, come in questo caso, giuridici, bensì lo scontro. Infatti, è noto che ponendo alla base di ciascun ragionamento lo scontro, esso da solo alimenta discussioni che spesso portano a odiare chi la pensa diversamente. Necessario, pertanto, ricondurre la materia nell’ambito di un quadro normativo che, nell’ultimo trentennio, ha caratterizzato e pervaso il pubblico impiego nazionale prima e siciliano dopo.

All’inizio degli anni ’90 è iniziata a svilupparsi l’idea di dare alle pubbliche amministrazioni una minore propensione allo spreco delle risorse umane ed economiche ed una maggiore capacità produttiva, in armonia con le disposizioni ed i principi dettati dalla legge 241/90 tra i quali i principi di economicità, efficienza ed efficacia, da cui è derivato, in generale, il fenomeno della privatizzazione anche a quei rapporti di lavori in cui la parte datoriale è la pubblica amministrazione.

La disposizione che ha dato il via alla privatizzazione è stato il decreto legislativo n. 29/93, derivante dalla legge delega n. 421/92 e recepito, tralasciamo le norme intermedie, successivamente dal decreto legislativo n. 165/2001 con il quale si é stabilito che i rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni fossero disciplinati contrattualmente mediante i contratti collettivi nazionali del lavoro, in Sicilia con contratti collettivi regionali di lavoro, stipulati dai sindacati dei lavoratori con un organismo si rappresentanza della pubblica amministrazione, l’Aran. Tralascio anche in questa fase come è stato successivamente aggiornato il decreto legislativo n. 165/2001 con il decreto legislativo n. 75/2017, non interessa nell’ambito di quanto rappresentato in questa sede.

A quanto sopra si aggiunga che il rapporto di lavoro pubblico, sottoposto al processo di privatizzazione, è costituito e regolato non da un atto di nomina da parte della pubblica amministrazione, come lo era prima, bensì da un contratto individuale di lavoro che riveste le forme del contratto tipico del diritto privato.

Da quanto sopra esposto possiamo dedurre che la privatizzazione del pubblico impiego ha comportato:

  • la totale contrattualizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con l’eccezione di alcune categorie che in questa sede omettiamo di citare, con la conseguenza che la definizione del rapporto, sia sotto l’aspetto giuridico che economico, è affidata al contratto di assunzione e al contratto collettivo di settore;
  • l’assoggettamento dei pubblici dipendenti alle normative e agli strumenti del diritto privato (teniamo ben presente questo aspetto);
  • la natura privatistica di tutti gli atti di gestione del rapporto di lavoro;
  • l’immediata applicazione dei contratti collettivi di lavoro, dopo il parere vincolante della Corte dei Conti, senza necessità di una fonte regolamentare di recepimento.

Nonostante quanti ancora ritengono e riterranno in futuro improbabile e provocatorio quanto adesso affermerò, allo stato attuale non c’è quasi alcuna differenza tra il lavoro pubblico e il lavoro privato. Se così non dovesse essere, significherebbe che ci siamo presi in giro per ben 30 anni di gestione di pubblica amministrazione.

Torniamo allo Smart Working. Non possiamo non richiamare la volontà del legislatore nazionale quando afferma che il lavoro agile, purtroppo in un momento assolutamente infelice per la nostra esistenza, ma certamente per questo, è diventato attività ordinaria fino alla fine dell’emergenza epidemiologica e se lo è davvero non si possono non applicare tutti gli istituti contrattuali previsti dai contratti di lavoro, istituti contrattuali scaturiti da ciò che ho sintetizzato sopra. Bene farebbero le Organizzazioni Sindacali a chiedere appositi incontri allo scopo di negoziare materie che in virtù dell’applicazione dello smart working sono rimaste non regolamentate.

È da un decennio che sentiamo parlare di digitalizzazione della pubblica amministrazione, di innovazione e di piattaforme informatiche. Governi hanno gongolato a inserire tali argomenti tra gli obiettivi da raggiungere. Un dato è certo ed è emerso in tutta la sua interezza con l’emergenza da Covid 19: le pubbliche amministrazioni nazionali e regionali hanno dimostrato tutta la loro arretratezza in tale materia in quasi tutti i settori lasciando alla buona volontà dei singoli di organizzarsi con propri mezzi.

Nella storia degli uomini si sono verificati eventi che hanno fatto cambiare il senso e la direzione della nostra esistenza. Eventi cruenti come guerre o rivoluzioni, quelle vere, quelle che hanno portato distruzione e morti. Sotto certi aspetti, l’attuale emergenza sanitaria sta rivoluzionando il nostro modo di vivere e tutti noi dobbiamo essere pronti a governare tale rivoluzione se realmente non si vuole soccombere. Certo c’è tantissimo da fare per far si che determinati concetti di gestione possano essere abbandonati e sostituiti con altri innovativi.

Qualche giorno addietro il Ministro della Pubblica Amministrazione Fabiana Dadone, a proposito della pubblicazione di articoli giornalistici sullo smart working , saggiamente, così ha detto: Sembra essere divenuto il vero male dellItalia in crisi, la crisi stessa a leggere i giornali o a sentire autorevoli opinionisti da salotto, però laver messo in smart working  i lavoratori, ove era possibile, ha salvato i servizi essenziali per  gli italiani.

Un’occasione di radicale cambiamento verso il radicale cambiamento dell’attuale è arcaico modello organizzativo e l’innovazione la fornisce il contenuto dell’articolo 263 della legge 17 marzo 2020 n. 77, laddove prevede che tutte le amministrazioni pubbliche sono chiamate a redigere, entro il 31 gennaio di ciascun anno, sentite le organizzazioni sindacali, il Piano Organizzativo del Lavoro Agile (POLA), prevedendo, per le attività che possono essere svolte in modalità agile, che almeno il 60 per cento dei dipendenti possa avvalersene, garantendo che gli stessi non subiscano penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera, e definisce, altresì, le misure organizzative, i requisiti tecnologici, i percorsi formativi del personale, anche dirigenziale, e gli strumenti di rilevazione e di verifica periodica dei risultati conseguiti, anche in termini di miglioramento dellefficacia e dellefficienza dellazione amministrativa, della digitalizzazione dei processi, nonché della qualità dei servizi erogati, anche coinvolgendo i cittadini, sia individualmente, sia nelle loro forme associative. In caso di mancata adozione del POLA, il lavoro agile si applica almeno al 30 per cento dei dipendenti, ove lo richiedano...

 Laddove invece un’amministrazione pubblica non dovesse adottare il POLA, dovrà comunque prevedere l’applicazione del lavoro agile ad almeno il 30% del proprio personale, sempre per quelle attività che possono essere svolte in lavoro agile, aumentando considerevolmente l’obiettivo fino ad ora indicato dalla Direttiva 3/2020 del Ministero per la Pubblica Amministrazione e modificando la percentuale prevista dall’articolo 35 del contratto collettivo regionale di lavoro 2016-2018 attualmente pari al 10%.

Cosa significa tutto ciò? Vuol dire che, nel caso in cui una qualunque amministrazione pubblica dovesse decidere di aderire al POLA, laddove almeno il 60% dei dipendenti occupati in quelle attività che possono essere svolte in lavoro agile se ne dovesse avvalere, si dovrà prevedere l’inserimento dello stesso modello organizzativo all’interno degli obiettivi che quell’amministrazione pubblica dovrà raggiungere nell’arco dell’anno solare e che dovrà essere oggetto di valutazione del personale dirigenziale e non, entrando all’interno di un’apposita sezione del piano della performance.

Vuol dire anche disegnare un’architettura dell’amministrazione nazionale e regionale completamente diversa da quella attuale supportata da una indispensabile informatizzazione e digitalizzazione dei processi amministrativi. Vuol dire, altresì, snellimento e velocizzazione dei provvedimenti amministrativi troppo spesso gestiti in maniera centralizzata, lasciando gli uffici periferici e quindi imprenditori e lavoratori di imprese che lavorano con la pubblica amministrazione a dovere attendere svariati mesi se non anni prima di dovere percepire quanto spettante per il lavoro svolto. Vuol dire, ancora, la promozione di percorsi formativi mirati che includano il personale impiegato nell’ambito dei processi d’innovazione in atto, favorendo al contempo nuove opportunità professionali.

Necessita un cambiamento totale di rotta allo scopo di velocizzare pagamenti a imprese che rischiano il collasso dovendo da un lato approntare danaro, investendo il proprio risparmio, per una determinata attività per conto delle amministrazioni e, dall’altro, dovere pagare le tasse a Stato e Regione in periodi cadenzati anche quando non percepiscono nulla dalle pubbliche amministrazioni alle quali hanno svolto lavori.

Necessita che i singoli uffici periferici, che poi sono coloro che contraggono lavori e appalti vengano dotati di una autonomia gestionale già all’inizio di ciascun anno solare dopo avere programmato e condiviso la programmazione delle attività con il vertice dipartimentale.

In altre parole i dipartimenti regionali dovrebbero valutare le attività che ciascun ufficio periferico conta di svolgere e accreditando le risorse economiche ai singoli uffici periferici che avrebbero poteri di spesa nel rispetto delle norme di contabilità attualmente esistenti.

L’amministrazione della Regione Siciliana non può sottrarsi, se vuole innovarsi, a tale cambiamento del modello organizzativo, partendo dall’istituzione di un apposito osservatorio regionale del lavoro agile presso il dipartimento della funzione pubblica, passando alla definizione della composizione, competenze e funzionamento del medesimo osservatorio.

La strada da percorrere è molto ardua, lunga e non dipenderà certamente dal pagamento o meno del buono pasto ma certamente da come si immagina il futuro e da ciò che realmente si vuole realizzare non con la politica delle chiacchiere, che ha il solo scopo propagandistico di raccattare qualche consenso elettorale per mantenersi incollato allo scranno, ma concretamente, rimboccandosi le maniche dettando indirizzi politici pratici e non fumosi, realizzabili e non solo sulla carta.