Cos’è Monreale? Una bella fanciulla cui dedicare parole d’amore

Ecco come, più di trent’anni fa, parlava della cittadina il professore Antonino Noto

Proviamo a cercare insieme delle risposte alla domanda: “Cos’è Monreale?”. Qualcuno, rifacendosi a quanto scritto nelle guide turistiche e nelle asettiche definizioni dei libri di Geografia, direbbe: “Monreale è un comune italiano di 39.140 abitanti della città metropolitana di Palermo in Sicilia”.

Altri identificherebbero la nostra cittadina col Duomo e affermerebbero che è il paese famoso, assieme a Cefalù, per la cattedrale arabo-normanna. Altri ricorderebbero Monreale come il paese, vicino Palermo, in cui vennero uccisi ben due capitani dei carabinieri: Emanuele Basile e Mario D’Aleo. Qualcuno menzionerebbe Monreale per la famosa Festa del Crocifisso.
Queste definizioni o identificazioni mi sembrano molto riduttive e insufficienti a cogliere la vera “anima” della nostra cara Monreale. Le città hanno un’anima?
Sì, certamente. A tal proposito, riporto quanto scrive l’architetto e critico Gabriele Mastrigli : “La città è indissolubilmente sia urbs, ovvero architettura, che civitas, ovvero società”.
E l’anima delle città è costituita dai suoi cittadini; sono costoro che la rendono viva e palpitante, siamo noi che la trasformiamo col nostro “agire”, col nostro stesso respirare. 39.140 è solo un numero, il numero che sta ad indicare gli abitanti, ma nella realtà ci sono 39.140 individui diversi, 39.140 visi diversi, 39.140 persone che pensano ed agiscono in modo differente; 39.140 individui che hanno diritti, ma anche doveri di fronte ai concittadini e dinanzi alla società tutta. Siamo noi la vita e siamo noi che portiamo la vita. Altrimenti le nostre città sarebbero come formicai senza formiche, oppure come alveari senza le api.
Lo scrittore Italo Calvino, nel libro “Le città invisibili”, descrive 55 possibili prototipi urbani, frutti dell’immaginazione, 55 metropoli ciascuna con caratteristiche diverse dalle altre. Egli, partendo dalle “città invivibili”, seguendo “un sogno che nasce dal cuore” costruisce queste città che sono “un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio . . . e gli scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi”.
Sarò di parte, ma ritengo che Monreale costituisca da sola la sintesi perfetta di quelle città, perché Monreale sa essere la città del passato, del presente e, al contempo, del futuro!
Monreale è come una bella fanciulla (o un bel fanciullo) a cui dedicare parole d’amore, esaltandone la “bellezza” delle fattezze, ma soprattutto quella dell’anima.
Così fece Antonino, mio padre, con una lettera, per molti versi lirica, inviata nel 1983 al professore Rocco Campanella. Eccola di seguito:

…Monreale, antica città regale e sacerdotale, non merita di essere conosciuta soltanto per la bellezza e santità dei suoi luoghi e monumenti che la fanno apparire, alle folle dei pellegrini e visitatori che ogni giorno vi affluiscono da ogni parte del mondo pieni di commosso stupore e di riverenza, quasi come l’acropoli della Sicilia o la Gerusalemme dell’Occidente. E’ certamente indimenticabile anche il fascino delle montagne dolomitiche che la circondano. Irte di pinnacoli, di massi erratici e di dorsali frastagliate simili a sagome di mostri antidiluviani, pare che da poco siano emerse dai mari primordiali. Ma, al di là dei segni dell’arte, essa non è meno suggestiva nella sua vergine naturale bellezza di umana dimora, prodotto ed espressione di quella segreta architettura in cui forze della natura e umana intelligenza si fondono per dare spesso vita ad opere non meno belle e certamente più autentiche di tanti capolavori dell’arte più raffinata.
Una musica fatta di ritmi sempre più cangianti e inattesi unisce le sue strade e le sue case che, tutte diverse per linee e colori, si addossano le une alle altre in agglomerati interminabili solo qua e là interrotti da vicoli e archi che immettono spesso in chiassi e cortili che sembrano atrii di una casa comune in cui viene cancellata ogni divisione di pubblico e privato e in cui la vita conserva tutto il fascino e la dolcezza della più raccolta intimità.
Le strade, infrangendo ogni legge geometrica, si diramano in tutte le direzioni, mai eguali, raramente dritte, volteggiano sinuose dovunque, interrompendosi spesso, ora formando strette gole, ora allargandosi improvvisamente in piazze irregolari salendo o inerpicandosi su verso le cime o scendendo precipiti a valle, più spesso tramutandosi o cedendo il passo a scale di ogni dimensione e slancio, scale ora ampie lente e solenni come le gradinate di un tempio elevato, ora strette e tortuose come i gradini a chiocciola di una fortezza, ora intrecciantisi e confluenti le une nelle altre e scendendo a valle come le correnti e gli affluenti di un unico grande fiume.
Decine di chiese, tra una coltre di tetti rosseggianti, innalzano al cielo le loro cupole e le loro finestre campanarie mentre un corteo di esedre e di fontane sale dalla valle verso gli spalti alti della città ornando strade e piazze (talune attendono, come strumenti musicali abbandonati, che qualcuno ridia loro, col mobile scintillio degli zampilli, il canto perenne delle acque).
Bella la città anche nei suoi quartieri e rioni, dalla Ciambra raccolta nella ombra profumata di incenso della cattedrale, al Carmine e alla Turbe che degradano a valle verso giardini pazzi di verde e di sole, all’alta Baviera dove le case più vecchie germinano dalla nuda roccia come tronchi d’alberi pieni di nidi dalla terra feconda, e i palazzi più nuovi ergono contro il cielo i loro frontoni orgogliosi.
Ma una città non è solo una dimora, ma un popolo, una storia, una comunità di vita e di tradizioni.
E il popolo di Monreale, educato e legato ad una tradizione di antiche libertà, porta nel sangue, nel volto e nei costumi, la forza e la dolcezza dei monti alpestri e delle valli profumate di zagara in cui vive, quella forza e quella dolcezza che sono riflesse anche nel suo tempio in cui la potenza massiva delle pietre e dei marmi si addolcisce nel gioco dei più delicati ricami o cede il luogo alle visioni di sogno delle figurazioni musive.
Perciò esso, malgrado taluni fenomeni ed episodi di grave cedimento che riempiono di sgomento, di dolore e di sdegno, resiste ancora a tutto ciò che di distruttivo e “deterritorializzante” porta con sé la “civiltà”, travolta e deviata, nel suo slancio prometeico verso l’infinito, dalle oscure potenze del male, dalla volontà di dominio e di morte.
Si perpetuano qui ancora opere e attività che hanno origini immemorabili, con gesti che hanno quasi la solennità di un rito. Nelle botteghe d’arte musiva e di ceramica fanciulle dagli occhi sognanti e giovani attenti, attingendo a cumuli di vetri multicolori, compongono le tessere in delicati disegni o modellano sul tornio che gira vorticosamente, l’umida argilla. I cestai con mano instancabile intrecciano le docili fibre della canna dorata e del pieghevole salice. E sulla incudine di squillante purissimo acciaio i fabbri attorcono in perfette volute il ferro duro.
Nei giardini tuttora il contadino, con sapienza e amore, educa le piante a rinnovare ad ogni primavera il miracolo della loro rinascita in fiori e frutti sempre più splendidi per colori e profumi.
La città non è stata ancora strappata alla terra che la regge e la nutre, ai suoi cieli da cui attinge luce ai suoi occhi e al suo spirito, alle memorie in cui ha le sue radici.
Tramandare alle nuove generazioni questo spirito non è tanto un dovere quanto un bisogno e un istinto radicato nelle più profonde fibre del nostro essere. Vivere è ricordare ma ricordare non è tanto protendersi verso il passato quanto cogliere, nel passato e attraverso il passato, ciò che vi è di in temporale ed eterno nella vita. L’uomo è storia ma la storia non è temporalità bensì negazione del tempo. Amare la propria terra è amare la vita, amare se stessi e in se stessi ciò che vi è in ciascuno di eterno e di universalmente umano…”.