Beni Culturali in Sicilia: dalla sindrome di sentirsi perfetti, all'amministrazione 2.0

fumetto di Michele D'Amico

Poco più di un paio di settimane fa, prendendo spunto da un recente studio dell'Istat, datato 19 dicembre 2016, riguardante i musei, le aree archeologiche e i monumenti in Italia, scrissi che sul territorio nazionale, la proporzione del numero dei dipendenti occupati nel settore dei beni culturali è pari a 1 ogni 2.400 visitatori. In Sicilia tale proporzione è di 1 ogni 2.930 visitatori. Sembra un dato banale ma a guardare bene, banale non è affatto.

Sfata, almeno nell'ambito qui trattato, un luogo comune tutto italico nei confronti della Sicilia, che vorrebbe conferire alla nostra terra una connotazione passivistica, prodotta da una politica assistenzialista, incapace di generare altra attività se non quella a derivazione pubblica.

 Certo, non vi è dubbio alcuno: la Sicilia soffre fortemente della mancanza di attività lavorativa industriale di natura privatistica e, allo stesso tempo, soffre delle conseguenze dell’abbandono, nel corso degli ultimi decenni, dell'attività agricola, un tempo traino dell'economia dell'Isola. Sempre più spesso si sente dire che l'attività privata è più efficiente di quella pubblica. Sarà vero? In parte. Eppure quante volte assistiamo a scene drammatiche di imprese piccole e medie che, dopo avere utilizzato risorse pubbliche in termini di sgravi contributivi previdenziali, tipiche di politiche di incentivazione occupazionale, scaduti i termini di tali politiche, anziché consolidare il rapporto di lavoro, licenziano creando disoccupazione con l'aggravio per la collettività di mantenere per un certo periodo tempo, con politiche assistenzialiste, i nuovi disoccupati.

 Se l'impresa privata, sia essa manufatturiera, agricola, industriale, tecnologica è così efficiente, per quale motivo dura in vita pochissimi anni? Poche sono le imprese italiane che riescono a vivere per molti anni ma neanche queste sono risultate esenti dal produrre un aggravio dei costi nelle politiche assistenzialiste dei governi che si sono succeduti negli ultimi cinquant'anni di storia repubblicana, costi interamente caricati sulla collettività.

 Recentemente il ministero dei Beni Culturali ha pubblicato i dati, riferiti al 2016, sulla fruizione dei siti culturali nazionali, stilando una classifica dei primi 30 siti a maggiore vocazione culturale, considerando il dato anche dal punto di vista regionale. Le sei regioni con il maggior numero di visitatori nei musei statali sono: il Lazio (19.653.167), la Campania (8.075.331), la Toscana (6.394.728), il Piemonte (2.464.023), la Lombardia (1.791.931) e il Friuli Venezia Giulia (1.198.771). Ovviamente in questa classifica non risulta il dato sulla fruizione dei Beni Culturali della Sicilia essendo questa autonoma. La Sicilia, come già ho avuto modo di scrivere in un precedente articolo, nel medesimo periodo di riferimento, ha registrato ben 4.395.926 visitatori. Pertanto, se inserita in questa classifica stilata dal ministero dei Beni Culturali, si attesterebbe nelle primissime posizioni. La Sicilia precede Piemonte e Lombardia, con buona pace di coloro che tendono a demonizzare la Sicilia, facendola apparire come l'origine dei mali del Belpaese.

 Si potrebbe pensare, erroneamente, che la Sicilia possieda più siti culturali ad esempio del Piemonte e che quindi il dato sulla fruizione dipenda dalla quantità di siti presenti sui diversi territori. Assolutamente falso. Lo studio dell'Istat, infatti, riguardante i musei, le aree archeologiche e i monumenti in Italia, ci fornisce anche il dato sulla diversa diffusione del patrimonio culturale sul territorio nazionale e proprio in Piemonte sono presenti 427 siti culturali, un numero di gran lunga superiore al patrimonio culturale presente sul territorio isolano.

 Ci si chiede per quali motivi non si riesca a porre l’accento, con la dovuta energia, sulle informazioni che non denigrino la Sicilia, e che piuttosto la pongono ai vertici, come nel caso della fruizione dei beni culturali, della classifica nazionale e per quali motivi le istituzioni deputate a diffondere simili informazioni non vadano oltre al semplice, asettico e cattedratico comunicato stampa, perseguendo ancora modalità comunicative divenute inefficaci.

 A volte viene naturale pensare che si soffra, in generale, della sindrome di sentirsi talmente perfetti da non ritenere necessario il doversi migliorare. Non possono non affiorare le parole di un famoso incontro-scontro tra il Principe di Salina e il messo sabaudo Chevalley, nel film il Gattopardo, parole che sembrano ancora attuali: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria ...

 Non basta pubblicare sul sito istituzionale atti amministrativi che attestino l'attività di una amministrazione. Tali informazioni, con la cosiddetta legge sulla trasparenza, sono talmente abbondanti che sortiscono l'effetto contrario: scoraggiano alla lettura. Necessita, invece, instaurare un dialogo tra coloro che amministrano e coloro ai quali tale amministrazione è destinata.

 Necessita che vertice amministrativo e politico dei beni culturali si aprano maggiormente alla società civile nel tentativo di coinvolgerla, facendola sentire parte integrante, al fine di farle conoscere quali siano i progetti di trasformazione, di miglioramento della cosa pubblica e di come vengano spese le risorse, sia quelle a titolarità regionale sia quelle comunitarie. Questo vale per i beni culturali ma anche per altri settori dell'amministrazione regionale. È necessario approdare, per utilizzare un termine informatico, all'amministrazione 2.0, ovvero un’amministrazione che si metta dalla parte dei cittadini ma che allo stesso tempo ne possa utilizzare l'intelligenza collettiva.

Sappiamo quanto gli aspetti culturali di un popolo siano molto resistenti al cambiamento. Noi siciliani ci crediamo talmente perfetti da considerarci l'essenza del pianeta, quando invece il pianeta muta respiro dopo respiro. Non nutro alcun dubbio: se la Sicilia vuole riprendersi il tempo e il terreno perduti, necessita di una radicale svolta culturale a tutto tondo, sia per quello che concerne gli obiettivi da perseguire, sia per le modalità di realizzazione, consci che solo così si può essere protagonisti del futuro e del cambiamento e potere amministrare le risorse che ancora sono disponibili.