Che fine hanno fatto i bambini?

fumetto di Stefano Gorgone

Carissimo direttore,
“la scuola è molto importante nella mia vita. Se non ci fosse, io starei sempre sdraiata sul divano a guardare la tv. Mi piace molto esprimermi attraverso la scrittura e senza la scuola ciò non sarebbe stato possibile. A scuola, poi, puoi goderti ogni attimo con i tuoi compagni e puoi superare tutte le paure che hai”.

Così mi scrive Letizia, una mia nipotina di dieci anni che frequenta la quinta classe della scuola primaria “Maria Montessori” di Roma.
E’ una bimba che ha uno spiccato spirito creativo, ama disegnare, scrivere racconti, suonare la chitarra. Prima della pandemia frequentava regolarmente la biblioteca comunale per ragazzi nel vicino parco Leopardi e la libreria Feltrinelli del suo quartiere ed era impegnata anche in gare agonistiche di ginnastica artistica. La pandemia ancora oggi le impedisce di continuare a coltivare i suoi interessi e lei non nasconde la sua inquietudine e la sua tristezza. Credo che la sua storia sia comune a quella della maggior parte dei bambini e ragazzi del nostro Paese.

Abbiamo infatti dimenticato i nostri bambini, li abbiamo chiusi in casa, non siamo stati capaci di dare risposte adeguate alle loro paure e alle loro ansie e molti appaiono abulici, svuotati e affogano la loro noia nei cellulari. Le stesse istituzioni non hanno mostrato verso di loro l’interesse che hanno avuto per i centri commerciali e per le attività produttive. Ricordiamo tutti che per diversi mesi non è stato possibile portare i più piccoli fuori all’aperto. Si è chiesto ai dirigenti scolastici, ai docenti, al personale tutto di fare miracoli per organizzare la vita scolastica per prevenire i contagi. Non è bastato. Si sono chiuse le scuole penalizzando i bambini soprattutto nelle regioni del Sud dove c’è più bisogno della funzione educativa della scuola, privandoli delle diverse opportunità culturali e del diritto al gioco. Abbiamo così potuto leggere striscioni con la scritta “che fine hanno fatto i nostri bambini”, un grido d’allarme che non è stato raccolto e che conserva ancora la sua attualità. Nel nostro territorio, infatti, la scuola rappresenta l’unico luogo dove i bambini possono esercitare il loro diritto alla cittadinanza; quando essa viene meno, i bambini sono invisibili. In tante città esistono musei, biblioteche, spazi pubblici in cui i primi fruitori sono i bambini, mentre da noi, nella maggior parte dei casi, esistono solo spazi privati pieni di gonfiabili. Sono stati i ragazzi stessi a scendere in piazza per chiedere di riaprire le scuole, a protestare perché sono aumentati in maniera considerevole i casi di dispersione scolastica. Come affermano sociologi come Vittorino Andreoli e Chiara Saraceno, sono le ferite invisibili di una generazione che stiamo perdendo.


Dovremmo provare, dunque, a saper guardare cosa succede nella mente e nel cuore dei nostri ragazzi, superare ogni individualismo e prenderci cura di loro come comunità educante perché, come recita un saggio proverbio africano, “per crescere un bambino ci vuole un villaggio”.
E’ necessario cambiare registro, riuscire a mettersi dalla parte dei bambini e dei ragazzi, concorrere in ogni modo a realizzare comunità inclusive nei loro confronti, individuare spazi creativi pensati apposta per loro, rimettere l’infanzia e l’adolescenza al centro delle politiche pubbliche che significa investire sul futuro del nostro Paese e, come ha recentemente affermato Mario Draghi, riscoprirne il gusto.