Il treno (femminicidio al tempo del Covid 19)

Nella giornata dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne pubblichiamo questa interessante novella di Antonella Vinciguerra

Chissà perché, tutte le cose importanti della mia vita sono accadute in estate. Se vado indietro nei ricordi, ogni pietra miliare che illumina il mio sentiero, è accompagnata dal frinire delle cicale e dalle immagini di pale di fichidindia che sembrano sciogliersi sotto un caldo africano.

Anche quello era un giorno importante, malgrado non ricordassi perché e anche quello era un giorno d’estate, forse la più calda degli ultimi anni.
La stazione di Aragona doveva essere stata ridipinta para para di fresco ed io ne ero stupita perché la ricordavo semiabbandonata, con l’erbaccia secca lasciata dall’incuria dell’agrigentinum hominis, che contrastava con le pietre nere accanto ai binari oramai fumanti data l’ora tarda della mattina.
Il verde brillante delle palizzate sembrava sprigionare una luce eccessiva che parve depositarsi pesantemente proprio alla destra del mio cervello provocando subitaneamente un dolore di testa così forte che mi faceva venire da rovesciare.
Tirai fuori da quella strana borsetta che non ricordavo di avere mai avuto, un fazzoletto di cotone immacolato ben ripiegato in quattro come faceva mia madre quando stirava la biancheria e lo aprii con poco garbo facendone svolazzare i lembi come vele sul mare.
Sarà di Carmela, pensai riferendomi a quella che, forse, era la mia amica del cuore, ma una fitta alla tempia mi fece salire un conato di acidità che mi annebbiò la vista per qualche minuto.
Mi appoggiai alla parete dei bagni pubblici che con mio stupore non emanavano il solito lezzo insopportabile e cercai di riprendermi, mentre con gli occhi controllavo che non ci fossero testimoni del mio stato perché a me non è mai piaciuto farmi vedere dagli estranei in situazioni di grande vulnerabilità.
Mai sanguinare in acque infestate da squali! –
credo amasse dire mio padre con quel suo sorrisetto enigmatico che nascondeva una dentatura non perfettamente in linea ed io, evidentemente, avevo assimilato quel concetto al punto da considerare la vulnerabilità umana, un difetto da tener segreto.
Mi accorsi che l’orologio della stazione segnava da più di mezz’ora le 14:02 ma pensai fosse rotto perché, a giudicare dall’altezza del sole, non era ancora mezzogiorno.
Certo, pensai, se con questa nausea sono alla stazione, sicuramente sto andando ad un appuntamento importante, ma poi il ronzio di un fuco attirò la mia attenzione e mi distolse da quei pensieri un poco annappiati che, tanto, non mi avrebbero portato da nessuna parte.
L’insetto si fermò a mezz’aria proprio davanti ai miei occhi e sembrò osservarmi con curiosità, mentre immergevo il fazzoletto nell’acqua di una fontanella.
Per un attimo mi ritrovai tra le braccia di zio Totò sulla fonte battesimale il giorno del mio primo sacramento, ma un ricordo di questa portata non poteva essere contemplato e dunque mi concentrai sugli occhietti curiosi del piccolo animale
Chi talii? –
gli chiesi sorridendo, ma quello continuò a fissarmi dondolando nell’aria per poi riprendere la ricerca di calici colorati sui quali posarsi, fregandosene dei miei pensieri.
Bagnai i polsi e bevvi con tutte e due le mani facendo attenzione e non sbavare il rossetto perché, ovunque io stessi andando, non avevo intenzione di arrivarci pallida e sfatta.
Ma è possibile che non mi ricordo a unni staju jennu? –
Quasi gridai all’aria in un dialetto ostentato e le cicale smisero di botto il loro frinire, lasciando spazio ad una brezza tiepida che mi scompigliò i capelli lunghi come di solito non portavo. Mi ripromisi, allora, di accorciarli al più presto perché quando superavano l’altezza del mento, il mio viso, già piccolo di suo, sembrava diventare ancora più smunto, accentuando delle occhiaie scure che mi davano un’aria emaciata.
Ancora una volta il corso dei miei pensieri fu interrotto da qualcosa di inaspettato e così la mia domanda rimase come sospesa da fili invisibili in un angolo della mia coscienza.
Da lontano, il cigolio della porta della sala biglietti annunciò la presenza di un cristiano piccolo piccolo, con un vestito nero stiratissimo e sulla testa un berretto da capostazione dalla visiera che brillava al sole. In mano, nessuna obliteratrice, come ci si può aspettare da un capostazione, ma un enorme bicchiere di Coca Cola con del ghiaccio tintinnante
Per lei, signorì – annunciò porgendomelo – Deve scusare la mia invadenza, ma qua siamo abituati a soccorrere una persona che ha bisogno e lei è accussì pallida! Io la vidi dalla biglietteria ed ebbi la m’prissioni ca da un momento all’altro avrebbe potuto scoppare a terra sbinuta -
Grazie – risposi io allungando la mano.
In genere amo bere solamente acqua perché lo zucchero delle bibite non fa che alimentare la mia sete, ma davanti alla gentilezza di quell’omino non me la sentii di rifiutare e così la bevvi in un solo sorso, ignorando le bollicine che mi solleticavano il naso e la gola
La coca più buona di tutta la mia vita! –
esclamai festosa
Arriverà in orario il treno per…?-
Non riuscivo a continuare, mentre i pensieri mi si aggrovigliavano spaventosamente
Palermo - disse lui completando la mia frase – Palermo! -
Aprii quella strana borsa di pelle che sembrava un enorme portamonete
Non ho il biglietto - sussurrai
Ma oggi è la festa della donna, signurì – rispose lui mostrando denti bianchissimi che ricordavano pubblicità di dentifrici – e i biglietti sono agratis -
Ma la festa della donna è a marzo e noi siamo nel mese di…di? -
Luglio, signurì, oggi è il 18 luglio del 2020 –
Sentii le gambe cedere come se fossero ad un tratto diventate di ricotta e sarei caduta a terra se lui non mi avesse sostenuto con una forza che sembrava provenire da un’altra persona
Come mai regalate i biglietti? –
Chiesi, allora, mentre rimettevo in piedi me stessa e la mia dignità
Perché, lei ava sapiri che le Ferrovie dello Stato festeggiano i fimmini, le donne, tutte le volte che ci sbirria! Quest’anno, che è particolare assai, hanno deciso che doveva essere oggi, 18 luglio alle ore 14:02 e, quindi, lei riceverà in regalo un biglietto per Palermo -
Ancora una volta, sentir pronunciare quella data, accompagnata dall’ora di un orologio rotto, risuonò nelle mie orecchie come un colpo di lupara
S’assittassi all’ummira, signorì che a momenti arriva a littorina –
mi consigliò con aria preoccupata e così mi accomodai su una panchina lisciando la gonna del mio vestito largo e lungo proprio sotto le ginocchia. In genere non mi vestivo così e tanto meno utilizzavo il rosso sgargiante di quei pois sulla stoffa bianca, ma la stanchezza mi prese così tanto che decisi di non pensarci e di chiudere gli occhi giusto un attimo.
Le cicale ricominciarono a frinire mentre la mente mi portava lontano, quando mia nonna metteva sul fuoco il bollitore per il the; la tazzina vuota in porcellana bianca di finissima manifattura, aspettava paziente, ma qualcosa di inquietante incrinava la serenità di quel momento: sul bordo immacolato della tazza una goccia rossa scivolava, lasciando al suo passaggio un piccolo sentiero purpureo.
Cercai di toccarlo, ma mi accorsi con terrore che il palmo delle mie mani era solcato da tagli profondi dai quali sgorgavano rivoli di sangue che prima erano timidi ruscelli e poi fiumi di porpora che scendevano giù fino al pavimento, mentre il fischio del bollitore era come un chiodo dentro il mio cervello
Signorì, arrivò a litturina –
gridava l’uomo con il cappello nero e gli occhi di un azzurro che faceva confondere
L’ho svegliata? E bonu fici a dormiri tanticchia! Ha fatto bene che con questo caldo vengono colpi di stanchezza pericolosi assai! –
Ebbi bisogno di qualche secondo per uscire da quell’incubo tipico dei sogni agitati su giacigli scomodi e pensai che, una volta arrivata a Palermo, mi sarei messa a letto per una settimana
Grazie –
risposi mortificata, mentre cercavo di ricompormi.
D’un tratto la stazione, prima deserta al punto da sentire l’eco ad ogni parola, brulicava di persone che salutavano donne di tutte le età pronte per partire verso destinazioni ignote.
Pensai che quella era veramente una giornata insolita, così come insoliti erano il mio intorpidimento mentale e la perdita di memoria.
Scelsi uno dei tanti sedili vicini al finestrino e poggiai la borsetta sulle ginocchia per lasciare spazio ad un eventuale passeggero, ma nessuno salì e il mio vagone rimase vuoto.
Mi girai verso il finestrino a guardare una macchia di margherite esplose al sole e pensai a mia madre, mentre un intenso profumo di menta piperita, che lei amava sfregare con le mani, mi assaliva piacevolmente; chiusi gli occhi e rimasi ferma anche quando uno scossone indicò che ci stavamo muovendo.
Dal finestrino abbassato entrava aria tiepida che mi accarezzava il viso e le braccia nude, poi aprii gli occhi e quasi gridai per la sorpresa
Mi spiace, non volevo spaventarla! –
disse quella voce con tono sereno.
Proprio sul sedile davanti al mio stava seduta una bellissima ragazza dagli enormi occhi verdi che ricordavano mari esotici; in testa, un cappello con il simbolo delle Ferrovie dello Stato copriva, in parte, dei capelli lisci e lucidi raccolti in una coda bassa. Mi stava guardando con un sorriso così caldo da togliere il respiro che su di me ebbe l’effetto di un abbraccio, ma io tutto questo lo capii solo dagli occhi, perché la ragazza portava una mascherina azzurra che le copriva naso e bocca, come quelle indossate dai medici in sala operatoria o quelle che indossano i turisti cinesi che incontriamo nelle grandi città d’arte.
Oggi ho deciso di prendermela comoda e così mi sono permessa di aspettare che lei aprisse gli occhi prima di obliterare il biglietto –
Il biglietto? - chiesi allarmata, dimenticandomi immediatamente di chiederle del perché indossasse una mascherina - Non ho il biglietto! Il capostazione mi ha detto che oggi è…-
Lei continuò a sorridere, mentre afferrava con gentilezza il tagliando che tenevo inspiegabilmente in mano
Ma come…? - chiesi io sorpresa
Il capostazione è un appassionato di giochi di prestigio e si diverte a fare scherzi alla gente -
sussurrò, mentre andava via ed io la guardai sparire e pensai che più che camminare il suo era un incedere, scivolare senza toccare il pavimento come le ballerine di Beriozka.
Mi girai ad ammirare il paesaggio che scappava velocemente da me e i pensieri, liberi di fluire, galleggiando sospesi a mezz’aria, placarono il mio sbandamento e, vi confesso, anche quella strana paura che mi accompagnava da quando avevo messo piede alla stazione.
Come richiamati dalla voce della coscienza più profonda, alcuni ricordi mi assalirono e, almeno all’inizio, non avevano nulla di minaccioso: la mano calda di mia madre sulla guancia, i nontiscordardime nella villa di San Leone, il grande albero di carrube, compagno di pomeriggi assolati, la mia amica Crocetta, bionda e bellissima che mi raccontava storie fantastiche e poi occhi; grandi occhi neri che arrivarono senz’essere invitati, come uno schiaffo.
Il mio cuore perse un battito.
Mi guardai in giro, mentre il treno veniva ingoiato da una galleria.
Le luci si spensero e accesero ad intermittenza per tutta la durata del percorso, ma poi il sole tornò e sembrò divampare nei miei occhi stanchi.
Il treno, lentamente, diminuì i suoi giri per fermarsi in una vecchia stazione ormai in disuso, ma io non mi stupii perché mi ero quasi abituata alle stranezze di quella lunga giornata.
Poi la ragazza dagli occhi verdi arrivò, annunciata da un meraviglioso ronzio di insetti che ricordavano le estati trascorse nel baglio di nonna Catalda; mi passò accanto come se io non ci fossi, scese dal treno e si avviò fuori con passi veloci.
La vidi aprire il portellone dell’ultimo vagone ed aiutare a scendere due donne che, anche se a causa della distanza e di un po’ di miopia non riuscivo a distinguere bene, sembravano quasi felici.
Provai ad ascoltare i loro discorsi, ma le parole venivano ingoiate dal vento e da un insolito frastuono che, prima lontano e indistinto, diventava più forte via via che si avvicinava e mi lasciava sbalordita. Sgranai gli occhi per lo stupore: da lontano vidi arrivare, e ancora faccio fatica a crederci, un gigantesco, pullulante sciame d’api che, attraversando i raggi del sole, rifletteva arcobaleni per formare attorno alle donne un vortice di una bellezza spaventosa per poi disperdersi nell’aria serena. Quando mi ripresi da tanta meraviglia, mi accorsi che il mio posto era occupato da una ragazzina di non più di diciassette anni con un caschetto scuro e degli occhi furbi e profondi
Scusami – dissi io – quello è il mio posto -
Per un attimo rividi me stessa, con quella sfrontatezza tenera degli adolescenti, forti della loro invulnerabilità.
Ella si accomodò sul sedile proprio di fronte al mio e iniziò a parlare senza mai abbandonarmi con lo sguardo
Il viaggio può essere molto lungo, a volte – sussurrò con voce ferma
E da cosa dipende? –
risposi io assecondandola forse per noia
Dipende da come lo percepiamo, ma non solo…-
E da cosa? –
chiesi stupita da tanta saggezza che risultava strana in quella ragazzina che pesava si e no quaranta chili
Mi hanno insegnato che tutta la nostra vita è un viaggio e anche dopo, il nostro nuovo tempo sarà destinato a nuove cose –
Ma davvero? –
La discussione si stava facendo divertente
Come mai vai a Palermo? –
chiesi, mentre dentro di me, uno strano senso materno si faceva avanti con forza
Io non vado a Palermo…- rispose – questo viaggio mi serve per parlare con tutte voi –
Sorrisi pensando che il caldo aveva dato alla testa a molta gente in quello strano giorno e, dunque, non le ricordai che su quel vagone non c’era nessun altro che noi due.
Il suo sguardo divenne così profondo da ricordare abissi ed io mi sentii attratta da lei mentre improvvisava un lungo monologo con quella voce così intensa da saturare l’aria.
Compresi che quella bambina era, in realtà un universo di pensieri e riflessioni crude sulla natura umana e le sue emozioni erano tempeste, terremoti, inondazioni, albe lucenti e languidi tramonti.
Al mondo ci sono persone che per loro particolare eloquenza hanno la capacità di affascinare le folle e, forse, lei doveva essere proprio una di quelle perché il vagone, prima deserto, si riempì di donne di tutte le età che provenivano da altre zone del treno e tutte ascoltavano quella bambina come si ascolta un messaggero di speranza. Si erano accomodate ovunque: sui sedili, sugli schienali, sul pavimento e, alcune, anche sulle ginocchia di altre che, come loro, volevano ascoltare le sue parole la cui intensità passava dalla luminosità di un fiore alla freddezza di un buco nero
Nel 1550 – esordì - un uomo disse parlando di situazioni politiche: ”Com’è possibile che tanti uomini sopportino un tiranno che non ha forza se non quella che essi gli danno? Da dove prenderebbe i tanti occhi con cui vi spia se voi non glieli forniste? Siate risoluti a non sortire più ed eccovi liberi”.
E allora io vi dico che la forza di cui i vostri mostri hanno bisogno, la prendono da voi e dalla vostra fragilità; essi si insinuano nell’angolo più buio della coscienza dove dimora la paura ed è lì che colpiranno senza pietà.
Questi esseri hanno in comune molte cose e una di queste è il percorso che compiono in modo subdolo per allontanarvi dai vostri affetti più cari e vi convinceranno con un lavoro capillare e quotidiano che l’unico mondo possibile sarà quello da loro costruito e controllato.
Useranno la dolcezza, il fascino e, a volte, anche una certa fragilità che vi spiazzerà e vi porterà a sottovalutarlo in modo che, senza averne coscienza, vi ritroverete completamente sole e indifese. A questo punto il loro atteggiamento, gradualmente o in modo repentino, diventerà a voi chiaro e allora vi convinceranno che uno schiaffo non è che l’espressione del loro amore assoluto e incontrollato e quando vi vedranno rigide e arrabbiate, piangeranno e giureranno che mai più accadrà e che se vi perderanno, la loro vita non avrà più senso.
Vi porteranno fiori rossi, ma attente…dovrete stare allerta perché ogni vostro pensiero verrà analizzato attraverso gli occhi del mostro.
Quanta dolcezza nella crudeltà delle parole usate
La violenza ha una costante: non finisce mai, ma si ciba di se stessa; è un orco assuefatto alle sue vittime –
Una donna, allora, si alzò mostrando un occhio tumefatto e un labbro spaccato in due punti; lo sguardo folle di chi sa che nessuno la potrà mai aiutare.
Ella allungò una mano e con l’indice mi indicò un punto fuori.
Il paesaggio, ordinato come se dei pittori fiamminghi avessero pazientemente dipinto la natura, lasciava spazio a campi vuoti e alberi spogli, poi, illuminato dall’oro dei nostri tramonti, comparve un campo arato da poco che si estendeva a perdita d’occhio, ma quelle che all’inizio mi erano sembrate angurie aperte, quando il treno rallentò la sua corsa, mi accorsi con grande sorpresa che erano scarpe.
Centinaia di scarpe da donna rosse.
Con il tacco grosso
Piccolo
Senza tacco
Spuntate e con la punta chiusa
Scarpe da bambina, da ballerina, da sognatrice, da donna pragmatica
Scarpe comode e scomodissime, eleganti e sportive
Scarpe rosse che per me non significavano niente se non follia e dolore.
Mi chiesi, allora, cosa ci facessi io là; cosa mai potevo avere in comune con quelle donne che nella vita avevano solo subìto? Conoscevo già i deserti del cuore, ma ero una guerriera, di questo ne ero sicura e non sarei mai stata in grado di abbassare gli occhi davanti ad un uomo violento, piuttosto mi sarei fatta ammazzare.
La voce della ragazzina mi ricondusse sul treno
Occorre agire – sussurrò – laddove sconforto e retaggi culturali hanno messo radici per tessere una trappola d’amore che amore non è mai –
Sentii una forte empatia nei suoi confronti e osai interromperla
Ma noi ci conosciamo? –
le chiedi e lei, lentamente allargò le braccia e le tese verso di me, offrendomi in un unico gesto, amore e conforto.
Rimasi ferma, prigioniera di un orgoglio ingiustificato, ma le mie lacrime arrivarono copiose come se fossero state dietro l’angolo ad attendermi e i singhiozzi scossero il mio corpo.
Il mio dolore sembrò, per majaria, unirsi a quello di tutte le altre donne, così diventò nel giro di pochi attimi, l’onda anomala di un oceano in tempesta fatto di umiliazione, terrore e morte che saturarono l’aria al punto che non riuscivo più a respirare.
I pois del mio vestito danzarono languidi trasformandosi in macchie di sangue su lenzuola candide e il mio cuore sembrò scoppiare in mille scintille che ricordavano faidde d’agosto.
Chiusi gli occhi per riempire d’aria i bronchi e ripiombai nel silenzio del vagone vuoto ma, ancora una volta il ronzio di api laboriose si presentò, cosicchè ancor prima di riaprire gli occhi sapevo che ella era là, con la sua voce pacata e quel sorriso abbagliante sotto quella mascherina che metteva ansia, ma non perché pensavo non respirasse, ma perché stimolava in me un ricordo lontano eppur troppo vicino che non riuscivo a mettere a fuoco.
Siediti, è meglio – mi disse – mi sembri stanca -
e i suoi occhi verdi sfavillarono come smeraldi al sole.
Dov’è andata la ragazzina? –
chiesi con la voce impastata dal pianto
Era la sua fermata – rispose dolcemente – Mi ha chiesto di ricordarti che sei speciale e di esortarti a non essere troppo severa con te stessa –
Ma di cosa parlava? Di chi parlava? E tutte quelle donne da dove venivano e dove sono andate? Non capisco –
Di colpo la mia mente abbandonò quel torpore che mi impediva di pensare e le domande sgorgarono assetate di risposte
Ma poi…dove siamo? Quando arriveremo? Da quante ore siamo sul treno? Dove mi state portando? E poi..la tua mascherina… –
Scccccc - fece la ragazza togliendosi il cappello con la visiera – Sarebbe molto semplice rispondere alle tue domande, ma la verità è che le risposte sono dentro di te –
Il sole sembrò tramontare e sorgere ancora e ancora, mentre pagliuzze dorate galleggiavano nelle sue iridi profonde
Devo aver paura? Voglio dire, sono al sicuro? Nessuno mi farà del male? – chiesi
Nessuno, te lo prometto – rispose
Il treno si fermò lentamente, la ragazza portò via il cappello ed io mi affacciai al finestrino da dove si poteva vedere una stazione simile a tante stazioni della Sicilia.
Un cartello blu conteneva la scritta scolorita e illeggibile del paese.
Tante donne vidi scendere e ognuna possedeva nel cuore un sogno, come se quel treno fosse stato un balsamo per la loro anima.
Una di loro, prima di sparire dietro l’angolo, si girò a guardarmi (sono certa guardasse proprio me) e mi sorrise mentre riparava gli occhi dal sole con la mano. Riconobbi la ragazzina magra che aveva travolto i miei ricordi e la mia coscienza e la salutai come si saluta una sorella o una parte di te che va via per sempre.
Poi tornai a sedere e aspettai tranquilla che accadesse qualcos’altro.
Intanto, il vetro del finestrino, prima totalmente opaco e incapace di riflettere la mia immagine, sembrò più pulito ed io potei scorgere il mio viso.
Com’era pallido e stanco! Sorrisi divertita perché i miei occhi, neri come carboni, alla luce del tramonto, sembravano azzurri, ma subito un’altra faccia si sovrappose alla mia deformandone i lineamenti e rendendo tutto molto inquietante.
Mi alzai atterrita, cercai invano uno specchio. Ma chi ero io e quale faccia avevo? Se solo avessi ricordato qualcosa!
Cosa devo sapere di me? –
chiesi alla ragazza del treno quando, puntualmente si presentò. Lei mi prese la mano ed io guardai l’infinito nei suoi occhi, mentre il mondo si capovolgeva.
Le tende di lino ricamate scivolavano nell’aria tiepida del pomeriggio; accanto a me, distesa sul letto, mia sorella piangeva
Te lo hanno detto tutti che lui non è per te! Fa solo finta d’esser gentile, ma è malvagio, io lo sento e lui sa che lo sento ed è per questo che mi odia –
Ma allora ha ragione quando dice che la mia famiglia non lo sopporta! Pure tu ti ci metti! –
Ma non ti rendi conto d’essere accecata dal sentimento che provi per lui? Sei totalmente nelle sue mani! Non vedi come ti tratta? Non capisci che ti ha allontanata dalla tua famiglia, dalle tue amiche? –
E te le raccomando quelle! Ha ragione lui! Le mie amiche sempre gelose di me sono state e grazie a lui l’ho capito pure io! Talè lasciamo perdere va!–
Riflettei un attimo
Lo sa che sei venuta in albergo da me? –
Oddio no! Gli ho detto che avrei fatto una passeggiata in via Atenea per acquistare il regalo per il suo compleanno. Se solo lo sapesse si arrabbierebbe moltissimo! –
Adesso dov’è? -
Alzò il viso, mi guardò con occhi tristi e non rispose alla mia domanda, ma mi gettò in faccia il suo affetto per me come se fosse stato un addio
Io ti voglio bene – disse piano come per non farlo sentire al mondo – ma non riesco a fare a meno di lui -
La mia mente si aggrovigliò ancora una volta: il suo viso era il mio, i suoi occhi azzurri, gli stessi che avevo visto riflessi sul finestrino del treno, i capelli biondi i suoi e contemporaneamente i miei. Nella visione scorsi la mia immagine riflessa allo specchio che sovrastava il mobile scuro tardo ‘800 siciliano e riconobbi, rabbrividendo, il volto di quella ragazzina che solo mezzora prima era salita sul treno e che aveva parlato con me e con tutte le ospiti presenti negli altri vagoni, ma notai anche qualcos’altro e cioè che anch’io portavo una mascherina chirurgica, ma la tenevo sotto il mento e così mia sorella.
Un conato di vomito si fece strada ed io lasciai con forza la mano di quella strana ragazza che adesso mi faceva paura
A volte il passaggio è difficile –
pronunciò dolcemente e l’aria sul treno non si mosse come se si fosse scordata di vibrare, ma il mio piccolo mondo confuso sembrò spaccarsi lasciando solo lampi che accecavano occhi ubriachi di tristezza infinita.
Mi accasciai sul sedile e abbracciai le mie ginocchia nascoste sotto quella gonna i cui pois, ancora una volta, sembravano danzare sulla stoffa candida.
Non so quanto tempo passò, ma quando mi svegliai il sole era di nuovo alto ed io mi sentivo rigenerata e pronta.
La mia mente iniziava a rimettere i ricordi a posto come tasselli di un puzzle e così ricordai il mio viso, ma ancora adesso non riuscivo a vederlo chiaramente attraverso il vetro.
Non capivo.
Nelle ore precedenti, forse solo nella mia mente, avevo assunto l’aspetto della mia amata sorella, con i suoi occhi azzurri, i capelli lunghi e morbidi e le sue gonne larghe che la rendevano elegante e sofisticata.
No, decisamente non capivo.
Sono qui per guidarti in questa parte del viaggio –
pronunciò la ragazza del treno prima di prendere di nuovo la mia mano e la visione ritornò più chiara di prima, accompagnata dal ronzio di quelle api che adesso sentivo amiche
Sono felice che ti sei ricordata del mio compleanno –
E vabbè che ci vuole? Il 18 luglio sempre quello è! –
Rispose con poco garbo tenendo il viso basso
Veramente da quando stai con lui non ti ricordi più di nessuno – poi mi fermai - Perché porti gli occhiali da sole anche in camera? –
Lei si agitò girando il viso dall’altro lato, ma io glieli tolsi con forza e mi sentii morire. Il suo occhio destro era gonfio e violaceo e lo zigomo pesto.
Nascose il viso con le mani
Chiamerò i carabinieri…- sibilai
Ti prego, no! – mi implorò – è stata tutta colpa mia! Lui mi ama ma, a volte è così nervoso! Per favore, non rovinarmi la vita. Ormai abbiamo fatto pace e lui mi ha promesso che questa volta sarà diverso. Ormai il Lockdown è superato e non sarà più necessario restar chiusi in una stanza per tanto tempo. Questo virus lo ha cambiato, lo ha reso fragile e nervoso -
Vuoi dire che durante la quarantena ti ha già picchiata? E tu sei rimasta con lui? Non hai raccontato niente? Lo hai coperto? Non ci posso credere –
E vabbè allora non crederci! –
sussurrò a denti stretti mentre raccoglieva le sue cose per andar via
No no ti prego non andare! Scusami, non volevo aggredirti anch’io. Siedi qua, vicino a me –
Non potevo credere che ciò che avevo sempre letto sui giornali stava capitando a mia sorella! Ella era la creatura più dolce e mite del mondo ed era intelligente, buona e desiderosa d’amore.
Quell’uomo aveva avuto sempre un forte ascendente su di lei e quasi da subito l’aveva convinta a lasciare l’università, che lui non riteneva necessaria; l’aveva allontanata da tutti ed io, battagliera e forte al punto da tenergli testa, gliele avevo cantate: non mi spaventavano le sue minacce inutili e il suo sguardo buio che si faceva morbido solo quando guardava lei
Sei invidiosa – mi sussurrava all’orecchio quando era certo di non esser visto da nessuno - perché lei è bella e ha me e tu, invece, sei ancora sola come un cane –
Ho solo diciassette anni – dicevo con un sorriso cattivo
Ti sbagli – replicava lui – non hai “solo” diciassette anni, hai “già” diciassette anni. Una femmina si consuma in fretta. Nessuno ti vorrà perché sei ladia come la morte e fin troppo indipendente! Ma chi ti deve carruziare? Chi ti deve volere?–
Pensava sul serio quello che diceva? Eppure più di una volta lo avevo scoperto a guardarmi con la bava alla bocca e una sera, dopo una birra di troppo, aveva pure tentato di baciarmi, ma io questo non lo avevo mai raccontato alla mia sorellona che, per quanto più grande di me di sei anni, era molto più fragile e insicura.
Ho provato a lasciarlo e avevo già preso, alla stazione, un biglietto per Palermo. Poi hanno chiuso i comuni ed io non ho fatto in tempo a tornare a casa come, invece, hanno in fatto centinaia – confessò con occhi lucidi non appena capì che io non l’avrei giudicata – Lui mi ha convinto che sarebbe stato bello rimanere tanto tempo a casa da soli e che ci saremmo divertiti ed io gli ho creduto. Poi le cose sono cambiate; è diventato paranoico, nervoso e spesso diceva che sentirsi rinchiuso gli faceva mancare l’aria al punto da pensare di buttarsi giù da quello stesso balcone in cui cantavamo abbracciati l’inno di Mameli.
Ogni giorno era sempre peggio la punto che non ero più neanche libera di fare la spesa da sola.
Quando gli ho detto che subito dopo il Lockdown sarei tornata a casa per riflettere sul nostro rapporto è impazzito; si è avventato contro di me con occhi da pazzo e così sono rimasta anche dopo. Non sono in grado lasciarlo, ho troppa paura! E poi ragiona, cosa potrei fare io da sola? –
Era evidentemente molto confusa e sembrava sull’orlo di un abisso
Ma cosa dici? – chiesi avvicinandomi a lei malgrado sapessi che era mio dovere mantenere una certa distanza - In ogni caso ora che ci hanno concesso di uscire puoi scappare, puoi…-
Adesso basta – concluse - Sono passata solo per farti gli auguri, ma devo andare che sono quasi le due e se non mi vede arrivare fa il “Vivamaria” –
Tu non vai da nessuna parte – ordinai - Ci penso io a te –
mai come in quel momento avevo avuto le idee così chiare.
Le versai un bicchiere d’acqua per calmarla e avevo già alzato la cornetta del telefono per chiamare aiuto, ma la porta della camera si aprì con violenza
Puttana! –
imprecò, mentre con un ceffone la scaraventava a terra.
L’adrenalina corse in mio aiuto, come se una scarica di corrente elettrica attraversasse il mio corpo dividendolo a metà.
Puttana! – continuava a sibilare, mentre tirava fuori un grosso coltello da cucina – devi farmi sempre incazzare! –
Poi lo vidi avventarsi su di lei che giaceva sul pavimento di legno bianco ed io rimasi ferma, paralizzata, come se mi avessero inchiodata a terra
E’ tutta colpa tua! Lo vedi che cosa mi hai costretto a fare?-
gridava mentre gocce di saliva ammorbavano l’aria ed io non sapevo se aver più paura del coltello o della possibilità di contrarre una malattia
Lei coprì il viso in segno di difesa, esponendo i palmi, i quali si aprirono lasciando solchi profondi grondanti di sangue.
Osservavo il coltello impugnato a due mani che penetrava il suo collo, il suo viso, il suo petto, squarciandole la carne e gli schizzi di sangue danzavano profanando le lenzuola del mio letto, le pareti e il bianco di quel suo vestito non più immacolato.
I suoi splendidi occhi azzurri, ormai vuoti come il buio di una galleria fissavano un punto alla loro destra con una strana espressione interrogativa.
E’ colpa tua se lei non mi vuole più, puttana… -
ripeteva lui ed io, anziché pensare che mia sorella era morta, mi chiedevo con chi stesse parlando.
Guardai il grande specchio davanti a me e vidi il mio viso e quello di mia sorella sovrapporsi ancora e ancora fino a rasentare la follia; ora occhi azzurri e capelli lunghi e ondulati di un biondo che ricordavano il sole e un attimo dopo gli occhi neri di una ragazzina di diciassette anni, incorniciati da un caschetto castano, gli stessi occhi e lo stesso viso della ragazzina che poco tempo prima avevo conosciuto su quel vagone.
Con un salto mi allontanai dalla ragazza del treno al punto che il cappello le cadde, ma lei non si scompose, né parve perdere la sua serenità.
Riposa –
mi disse e nei suoi occhi verdi, potei leggere la comprensione e l’amore nei miei confronti.
I miei sentimenti erano così violenti e contrastanti che non riuscivo a dare un ordine alle azioni e alle parole della visione, ma quello che importava adesso era che mia sorella era morta; il suo splendido futuro era stato fermato dalla sete di un assassino che brandiva un coltello in nome del suo ego smisurato.
Vomitai anche se non toccavo cibo da tanto tempo.
Come avrei fatto senza di lei? Cosa ne sarebbe stato di me? Lei era la mia guida, la mia famiglia, il mio unico mondo!
Poi le domande si spostarono su un altro terreno: perché mi trovavo su quel treno? Perché il mio viso e quello di mia sorella si sovrapponevano? Forse la mia mente si era rifiutata di accettare la sua morte e la bellissima ragazza dagli occhi verdi era stata mandata da qualcuno per farmi ricordare gli eventi ed elaborare il lutto? In tal caso, pensai, la mia stazione sarebbe stata la prossima.
Sentivo gli occhi bruciare, mentre lacrime calde lasciavano sul mio viso solchi di un dolore indicibile e poi l’idea di quella mascherina mi confondeva poiché era un altro tassello da mettere a posto in quel marasma emotivo che mi avviluppava.
Guardai i miei piedi: non riuscivo a ricordare in quale momento del viaggio avevo tolto le scarpe col tacco per indossare un paio di sneakers blu, ma quello non era il momento di pensare alle scarpe; quello, ormai era il momento di concludere ed io dovevo assolutamente parlare con la ragazza del treno. Cercai di uscire dal vagone, ma la porta anteriore scorrevole era bloccata; tornai indietro ma anche quella del vagone posteriore non si aprì. Ero rimasta, o forse ero sempre stata, prigioniera in un limbo che non mi permetteva di raggiungere nessuno.
Mi misi a gridare e battere i pugni sul vetro e anche se da lontano scorgevo altre donne che parlavano tra loro, nessuna sembrò notarmi.
Qualcosa non andava, mi girava la testa e i pezzi della mia memoria, che prima sembravano essere tornati al loro posto, adesso sembravano perdere di nuovo consistenza come cocci incollati male.
La mia immagine riflessa sul finestrino sembrava sbiadirsi e minuto dopo minuto i miei pensieri si aggrovigliarono di nuovo, placando, da un lato, il dolore per la perdita di mia sorella e affievolendo contemporaneamente anche la mia consapevolezza di stare al mondo.
In che cosa avevo sbagliato?
Anche gli oggetti attorno a me sembravano perdere colore; fuori la campagna era ancora illuminata dal sole, eppure qualcosa stava divorandone la lucentezza e il verde dei prati perdeva intensità e assomigliava sempre più a quello di una bandiera stinta.
Le stesse pareti del vagone sembravano avvolte da una nebbia sinistra che avrebbe ingurgitato ogni cosa e, alla fine, anche me.
“Le risposte sono dentro di te” aveva detto la ragazza del treno e, dunque, dovevo sforzarmi di trovarle altrimenti, ormai ne ero sicura, sarei esplosa e sparita nell’aria come bolla di sapone.
Mi sedetti a terra con le spalle alla parete del treno e ripercorsi i miei ricordi a ritroso tante e tante volte per trovare un segno, ma ogni volta che rivedevo il brutale assassinio di mia sorella, il dolore sembrava strappare un lembo del mio cuore.
Cercai la forza per non piangere e provai ancora, con il vestito madido di sudore e i capelli incollati alla testa.
Il corpo straziato dalle ferite inferte, gli schizzi di sangue sul letto che danzavano e danzavano come…come i pois della gonna che indossavo in quel momento e che per la durata di tutto il viaggio mi avevano spaventata al punto da non riuscire a guardarli.
Gli occhi spenti della mia Giulia che guardavano senza più vedere me.
Giulia! – gridai – ricordo il suo nome! Ricordo il nome della mia cara Giulia…Giulia…Giulia che sorrideva con i suoi bellissimi occhi ancor prima che con le labbra; Giulia che non usciva di casa se prima non era certa d’esser bellissima; Giulia che mi teneva la mano mentre da piccole mi accompagnava in spiaggia –
Ricordavo il suo nome e brandelli del mio passato, ma sentivo che ancora avevo in mano il tassello sbagliato.
Rividi un sentiero che portava in spiaggia, i piedi di due bambine con le infradito gialle, un cagnolino col manto pezzato e un solo occhio, che avevamo trovato nel vialetto di casa qualche tempo prima e mia madre affacciata alla grande finestra del salone che agitava una mano, mentre nell’altra teneva elegantemente una sigaretta accesa
Mi raccomando Giuliù – gridava – Vedi di comportati bene e non fare innervosire a tua sorella! –
Si mammì – risposi…io – te lo prometto, farò la brava! –
Un dolore lancinante si impossessò della mia testa e la vista quasi scomparve, lasciandomi prima un buio pauroso che mi fece rabbrividire, ma che poi mi consentì di guardare i particolari del mio passato come se fossi stata al cinema.
Tornai nella stanza in quel diciotto luglio, rividi mia sorella a terra priva di vita, guardai ancora una volta lo specchio poggiato sul grande mobile fine ‘800 siciliano, ma questa volta, oltre al mio viso, notai anche l’orologio appeso alla parete: segnava le 14:02.
Cercai di trovare la chiave di tutto, sapevo che qualcosa mi era sfuggita, ma non riuscivo a capire cosa e il dolore mi impediva di pensare, poi le vidi.
Le scarpe di mia sorella erano le stesse sneakers blu che indossavo io in quel preciso momento.
Il mondo sembrò aumentare i suoi giri per poi cadere in rapide infinite insieme al treno, alla campagna, alle stazioni e alle scarpe rosse.
Rividi la porta della mia camera aprirsi con violenza
Puttana! – sibilava – Devi sempre farmi incazzare –
mentre con un ceffone scaraventava mia sorella a terra
E’ tutta colpa tua se lei non mi vuole più –
gridò verso di me e nei suoi occhi si intravedevano le fiamme dell’inferno. D’istinto indietreggiai, ma qualcosa ostacolò i miei passi incerti così inciampai e caddi sul letto un attimo prima che lui si avventasse su di me brandendo un grosso coltello da cucina.
Alzai le mani sul viso per istinto e le sentii squarciare.
Non capivo neanche cosa stesse accadendo, vedevo solo gli occhi di mia sorella, i bellissimi occhi azzurri che sembravano volessero uscirle dalle orbite e, sopra la sua testa, il grande orologio che segnava quella che sarebbe stata la mia ora per l’eternità.
Non sentivo nessun dolore, o almeno non più e pensavo che quegli schizzi sul lenzuolo bianco sembravano danzare su musiche misteriose di sirene della polizia che qualcuno aveva chiamato.
Poi mi sono ritrovata alla stazione di Aragona, con la mente confusa e senza memoria.
Gli oggetti sul treno ripresero quella consistenza che prima avevano smarrito e fuori, i prati ritrovarono quel verde luminoso che solo un paesaggio siciliano può avere.
Guardai il vetro del finestrino e finalmente vidi me.
Le donne degli altri vagoni smisero di parlare tra loro, si girarono a guardarmi e tutte mi sorrisero.
Respirai a pieni polmoni e spostai una ciocca dei miei capelli dietro l’orecchio prima tornare al mio posto.
Da un punto indistinto della campagna, le sentii arrivare a migliaia, ma quello che prima mi sembrava il ronzio di insetti felici, adesso era un canto che così bello non avevo sentito mai. Tra le donne che ormai riempivano il mio vagone si fece spazio la ragazza del treno, ma stavolta era senza cappello, i suoi capelli erano sciolti e per la prima volta non indossava la mascherina in modo che io potessi vedere il suo sorriso.
Eccomi – disse semplicemente – il primo tratto del tuo viaggio è trascorso e adesso possiamo andare dall’altra parte
Sarà bello? –
Chiesi respirando un’aria che così fresca e pulita non sentivo da tanto
Bellissimo – rispose lei strizzandomi un occhio.
Il treno, intanto, percorreva lentamente quel cammino tracciato da millenni, su binari misteriosi e soli luminosi, mentre il vento accarezzava piano il mondo lontano, con la sua forza e le sue debolezze.