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Le ipocrite risposte istituzionali eludono le cause profonde del disagio dei giovani

| Salvo Porrovecchio | L'opinione
fumetto di Salvo Porrovecchio

Nel triplice omicidio di Monreale non è solo la morte violenta di tre giovani a scuotere, bensì l’emergere di un disagio profondo, radicato, che riguarda l’intero tessuto sociale, economico e culturale di una comunità già ferita e impoverita.

Nelle cronache giornalistiche e nei media in generale di questi giorni si è assistito spesso ad una narrazione distorta che spesso standardizza e folklorizza la tragedia: il Sud come luogo irrimediabilmente destinato al degrado, alla violenza, all’autodistruzione. Questa narrazione non solo tradisce la complessità dei fenomeni, ma opera anche una separazione psicologica, come se certi drammi appartenessero a un’umanità altra, periferica, da compatire o stigmatizzare, mai da comprendere pienamente o integrare nella propria responsabilità collettiva.

In secondo luogo l’ipocrisia delle risposte istituzionali, che si concentrano immediatamente sulla richiesta di maggior sicurezza, invocando la presenza di esercito, polizia, repressione. In questo approccio, che possiamo definire reattivo e sintomatico, non si affrontano mai le cause profonde che portano ragazzi di diciannove anni a portare con sé un’arma, a normalizzare la violenza come linguaggio sociale. Si interviene sul sintomo (l’omicidio) e mai sulla patologia di fondo (il disfacimento del tessuto comunitario).

Non si vede, invece, una critica seria al modello occidentale contemporaneo, dove l’individuo è spinto alla competizione, alla performance, all’apparire. L’identità si costruisce sul successo economico e sulla visibilità sociale, in un contesto che ha svuotato di significato valori come la solidarietà, l’impegno civile, la costruzione paziente del futuro. I giovani crescono dentro un sistema che, oltre a privarli delle opportunità materiali, non offre più nemmeno orizzonti simbolici: non c’è più il “tempo della semina” perché è stata annientata la fiducia nella possibilità stessa di un raccolto.

Ci dobbiamo chiedere quale eredità stiamo lasciando alle nuove generazioni: non ci sono più conquiste da difendere, ma macerie da sopportare. Invece di costruire una società più giusta, si è amplificata la logica della discriminazione, del consumo distruttivo, della negazione dell’altro e dell’ambiente.
Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che anche gli stessi assassini giovanissimi sono vittime: non nel senso di una deresponsabilizzazione morale, ma nella consapevolezza che sono il frutto avvelenato di un ambiente che ha smesso di educare, di accompagnare, di offrire alternative. Serve prendersi cura non solo delle vittime immediatamente riconoscibili, ma anche di chi, più subdolamente, è stato educato alla morte, alla sopraffazione, alla disperazione.

La cura è l’unica prospettiva possibile: cura intesa non come assistenzialismo caritatevole, ma come costruzione paziente di legami, di spazi comuni, di fiducia, di speranza. Solo attraverso una società che si prende davvero cura delle proprie ferite, che riconosce e accoglie le proprie fragilità invece di reprimerle, sarà possibile sperare in una reale guarigione.
Ritengo che ogni tentativo di ridurre questi eventi a “questione di ordine pubblico” sia gravemente miope. Come medico, so quanto sia inutile sedare un sintomo ignorando la causa sottostante: è lo stesso errore che stiamo facendo come società. Lavorare sulla prevenzione significa investire in cultura, scuola, opportunità, spazi di cittadinanza attiva. Monreale e Palermo, devono ritrovare il coraggio di riconoscersi per intero, di accogliere anche le parti ferite in esse, se vogliono davvero cambiare il loro destino.

· Enzo Ganci · Editoriali

MONREALE, 3 aprile – L’ingresso del sindaco Alberto Arcidiacono in Forza Italia, con tanto di comunicato stampa corredato di foto, mossa che mancava solo del crisma dell’ufficialità, segna un preciso spartiacque nella politica recente della nostra cittadina.

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