fumetto
di Antonella Vinciguerra
Viviamo in un tempo in cui la democrazia corre un grande pericolo subdolo e letale: è il fraintendimento. L’idea che “democrazia” significhi poter dire e fare qualsiasi cosa, sempre, comunque, in ogni luogo anche se ferisce, anche se umilia, anche se distrugge.
È in questa democrazia fraintesa che i femminicidi non smettono di accadere, malgrado decenni di educazione di genere, leggi e decreti, campagne istituzionali, docenti formati, progetti scolastici capillari. Una democrazia in cui si gioca con il lutto di un Papa travestendosi da lui giusto pochi giorni dopo la sua morte quando, invece, si dovrebbe restare in religioso silenzio per riflettere sulle sorti del mondo cristiano. Una democrazia che grida il diritto di essere, ma che ha perso la strada del rispetto.
Che pretende di garantire libertà di pensiero, ma che ha dimenticato cosa significhi davvero. “Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo” scriveva lo scrittore e filosofo Voltaire nel ‘700 non con l’intenzione di alimentare il disordine, ma nella speranza che nel futuro ci fossero società più inclusive e progressiste e invece oggi, chi difende la “libertà di parola” spesso lo fa per attaccare, insultare, zittire, imporre il proprio pensiero anche se distruttivo.
Chi ci sta davanti non è più interlocutore ma diventa nemico e come tale va abbattuto con ferocia non solo verbalmente ma anche e, soprattutto, fisicamente.
Il verbo si fa arma e la parola sfogo rabbioso e viscerale come un grumo nello stomaco privo di filtri e di coscienza nel vano tentativo di gestire l’ansia e compensare la bassa autostima.
Ma non basta. Quando tutto questo non calma il pensiero violento, la parola diventa azione, spesso, non da condannare ma da emulare. Si accoltella. Si spara. Si uccide. In mezzo alla gente nel cuore di una festa patronale. Tra la folla. Ad altezza d’uomo. Anche se ci sono famiglie. Anche correndo il rischio di uccidere bambini. Senza ragione se non quella di esercitare il potere d’esistere anche se mai si è stati assenti come in quel momento.
E’ in questo modo che, forse, l’uomo, o per meglio dire, il “non uomo”, trova un senso alla propria esistenza nella violenza che esso stesso ha generato e che lo fagocita senza lasciare traccia di quello che era un tempo.
La folla osserva sconvolta, si indigna ma solo per poco perché poi il dolore collettivo sbiadisce lasciando traccia solo nelle famiglie spezzate dal dolore privato.
Lo troviamo nei nomi scritti su lapidi, su panchine rosse e ciò che sembrava esser destinato a diventare un monito, un insegnamento, diventa un concetto riservato a pochi relegato negli archivi.
E così anche la libertà che sorregge la democrazia, privata del suo significato più profondo, non “compresa, ma “fraintesa” diventa l’ombra di se stessa, una pagina triste nei libri scolastici, un altro monumento. Mi chiedo se, continuando così, non torneremo davvero nelle caverne illuminate dal fuoco o a spasso tra o con dinosauri ricreati da antichi DNA.